Cortellesi: bene, ma non benissimo

*** ATTENZIONE QUEL CHE SEGUE CONTIENE “SPOILER” SUL FILM IN QUESTIONE: NON LEGGA CHI NON VUOL SAPERE COME FINISCE! ***

Siamo reduci (io, mia moglie, insieme a una coppia di amici) dalla visione del film di Paola Cortellesi C’è ancora domani. La sinossi/trama del film può essere letta più o meno ovunque sul web, a partire dalla pagina Wikipedia linkata.

Siamo rimasti un po’… perplessi. Il film ripercorre (anche molto drammaticamente) il florilegio delle vessazioni a cui storicamente le donne sono state sottoposte in questo paese (dalle botte, alle umiliazioni psicologiche di ogni tipo, ai rapporti sessuali non desiderati/voluti col partner, passando per le differenze di salario a parità di mansione e chi più ne ha più ne metta), in un contesto dove, regola pressoché invariabile, a una povertà economica corrisponde(va) una povertà culturale.

Insomma: una roba da “magone” (che scopro essere un regionalismo, quindi: seconda definizione del dizionario…) per quasi tutto il tempo del film. Un film che alla fine si basa sul gigantesco equivoco legato alla partenza di un potenziale “pretendente” (o comunque: una vecchia fiamma della protagonista Delia/Paola Cortellesi) a cui tutti, a un certo punto, quando gli eventi precipitano, sembra ella si debba/voglia ricongiungere, per fuggire dalla ingrata vita che fino a quel momento le è toccata.

E invece? Invece “c’è ancora domani”, appunto, perché siamo a ridosso del primo suffragio universale del dopoguerra, e i giorni per andare a votare erano la domenica (momento che artatamente coincide, nella narrazione della vicenda, con la partenza “per il nord” della “vecchia fiamma”, il meccanico Nino/Vinicio Marchioni) ma anche il lunedì. Insomma, di colpo, ex abrupto, quasi che il drammatico destino individuale su cui le quasi due ore di film si erano concentrate “scomparisse” di fronte alla importanza del voto, pur notevole, ci ha lasciato tutti un po’ così, con un finale che sinceramente, in tutta franchezza, avremmo preferito diverso.

Che misoginia e maschilismo fossero all’ordine del giorno anche nella vita pubblica della nazione è dato acclarato, ma che la “rivoluzione” (autenticamente democratica) del voto fosse in qualche modo la via per uscire dal “sistema” della vessazione, sembra a tutta prima, alquanto improbabile. Un po’ perché ex post, a quasi 80 anni di distanza, vediamo i risultati sia di partecipazione (*) sia di “capacità di modificare lo status quo” della democrazia, un po’ perché l’effetto straniante del film è dato da una intensa focalizzazione che concentra l’attenzione dello spettatore sui dettagli del quotidiano della povera Delia che d’un tratto diventano il macrocosmo di una nazione: si fatica a capire il passaggio e a capire perché correre tutto quel rischio per andare a votare. Soprattutto perché, sempre artatamente, di questa opzione non si fa mai riferimento o menzione per tutto il film, se non implicitamente (Delia più volte passa di fronte a un muro di cinta in cui campeggia una scritta tipo “abbasso [con la “W” rovesciata] i Savoia, W la Repubblica”). Riferimento che si coglie solo quando ormai si accendono le luci in sala e stiamo tornando a casa. Insomma, sembra una costruzione un po’ fragile, un po’ pretestuosa su temi che, presi separatamente, sono così importanti (il voto alle donne, quindi i loro diritti da un lato e la declinazione di quegli stessi diritti nella quotidianità dall’altro).

Avremmo insomma immaginato una soluzione diversa e abbiamo provato a fare delle ipotesi con mia moglie che sostiene Delia avrebbe dovuto fuggire con la figlia e mollare marito stronzo e bifolco (impersonato da un ottimo Valerio Mastrandrea) insieme ai due figli maschi tal quali al padre. Cosa che probabilmente avrebbe salvato la vita a Delia (ricordiamo, giusto per dovere di cronaca, che nel bananifero paese che abitiamo la legge sul divorzio è del 1970, mentre il delitto d’onore è stato abolito definitivamente solo nel 1981!) ma che risultava ugualmente improbabile per lo zeitgeist dell’epoca: quasi nessuna donna, soprattutto se appartenente alle classi sociali inferiori, avrebbe saputo “vedersi” da sola con una figlia, in fuga da un marito manesco. A un certo punto, come dice la protagonista alla figlia, se ti scegli un marito “è per sempre” e quindi devi fare attenzione a come scegli. A me più plausibile sarebbe sembrata la fuga, magari a rischio di venire accoppata, visto che il marito a quel punto sacrosantamente abbandonato e cornificato, se fosse riuscito nell’impresa di uccidere la (ex) moglie sarebbe rimasto comunque impunito. Ma tra queste due soluzioni, nessuna delle due è stata scelta. Ci dobbiamo quindi immaginare che la povera Delia, compiuto il suo diritto/dovere di elettrice, sarebbe tornata a casa dal marito, pronta di nuovo a subire e a prender botte, in quell’inferno quotidiano che una volta era stato illusoriamente il paradiso di quando si è stati innamorati. Ma l’amore, lo sappiamo, rende ciechi.

Il tutto, per altro, alla luce dell’ultimo – in ordine di tempo – di una lunga, inifinita, sequela di femminicidi che denunciano il grave stato di analfabetismo sentimentale (soprattutto maschile!) di cui il nostro paese sembra essere campione: la morte di Giulia Cecchettin per mano di Filippo Turetta.

(*) Entusiaste, nel generale entusiasmo della neonata democrazia, il film, nei titoli di coda, mostrava come a quelle prime elezioni del 1946 l’89% delle donne aventi diritto si fossero recate alle urne. Questo grafico mostra come le cose sono evolute nel tempo, con una sempre più sostanziale sfiducia nel “modo di cambiare le cose” (per renderle migliori): l’astensionismo, in nero, avanza sempre di più…

Qualche considerazione sulla (mia) mobilità

Lo confesso: ho speso un sacco di tempo in riflessioni – personali e collettive – sulla questione della mobilità (alcune di quelle collettive sono raccolte qui). E’ un’esigenza imprescindibile, bisogna però conciliare esigenza e portafoglio, il tutto in uno scenario che sembra mutare rapidamente ma non si capisce in realtà quanto rapidamente muti (almeno nel nostro paese).

Spinte e reali esigenze poi confliggono con i “desiderata”, ma… ci arriveremo. Un po’ di storia (personale). Ho guidato dal 2010 al 2021 una BMW 320d coupè, acquistata usata (l’auto era/è – perché ancora esiste – del 2007) con circa 40mila km e rivenduta con 235mila. Ottimo acquisto, delle tedesche non si può dire nulla, specie di quelle di fascia medio-alta, tranne che… somigliano alle “italiane” di cui tutti abbiamo un po’ in mente lo stereotipo, ovvero: auto valide, motori indistruttibili (e anche veloci), ma per le quali ci si perde poi sui dettagli. Dettagli che però fanno la qualità quotidiana dello stare in auto: plastiche che si vulcanizzano e diventano appiccicose – e non in posti a caso, ma proprio sul bracciolo dove metti la mano per aprire e chiudere lo sportello (sembra fatta apposta, no?); spie che si accendono dando falsi allarmi – per anni ho avuto quella dell’airbag lato passeggero che faceva un falso contatto o quella del FAP (filtro anti particolato dell’auto che però, controllato, risultava in ordine). Insomma: cose che alla lunga esasperano e che per essere riparate richiedono esborsi ingiustificati e ingiustificabili. Per il bracciolo praticamente mi si chiedeva di cambiare mezza portiera dell’auto. Per la spia addirittura c’era da intervenire sulla centralina. Siamo quindi in piena crisi da “obsolescenza programmata”: siccome l’oggetto non invecchierebbe così tanto “naturalmente” si fa in modo di farlo invecchiare artificialmente.

Sindrome che affligge praticamente tutto ciò che ci circonda e alla fine pure io, stanco di avere la mano appiccicosa (e di farla avere ai passeggeri!), stanco della spia rossa, a tratti “gigante” sul cruscotto e ben in vista a lungo, ho deciso di sbarazzarmi dell’auto. Venduta. Bene e con soddisfazione, sia chiaro, a un ragazzo dell’Est Europa, appassionato, che vive a Lucca e una volta per caso ho rivisto: l’auto è tornata a nuovo splendore. A volte, semplicemente, serve qualcuno che abbia più passione e motivazione di noi (e magari qualche conoscente tra carrozzieri e meccanici).

Ho indugiato qualche mese prima di riacquistare un’auto. Mi sono deciso con i primi freddi per una Golf VII, TDI, il classico 2000 turbo con 150 cavalli e il cambio automatico – giustamente decantato – DSG a doppia frizione. Auto spettacolare che, nonostante di fascia inferiore alla BMW, risultava superiore per qualità delle finiture e soprattutto dei materiali (nessuna plastica appicosa o vulcanizzata). Certo, tra le due auto c’erano anche diversi anni di progettazione di distanza. Anni che, nel settore automotive, fanno tendenzialmente fare salti in avanti. Troppo in avanti, mi verrebbe da dire. E qui arrivo un po’ al nocciolo della questione e della riflessione che voglio esporre. L’auto, di nuovo, era usata (per principio non acquisto auto nuove…), un 2020, quindi recentissima. “Aziendale”, come si dice, neppure 20mila km, insomma: praticamente nuova. Essendo di “questa generazione” (ricordo che la BMW era un 2007…) aveva, oltre a tutte le “sicurezze” previste dai modelli precedenti (ABS, airbag dappertutto, ecc.) anche quelle che vanno verso la guida autonoma: radar anteriore anticollisione; cruise control adattivo (ACC) che “legge” la distanza dall’auto davanti e, in funzione della velocità a cui si procede (forse anche dal fondo se asciutto o bagnato – o comunque c’è anche qualche altro parametro), mantiene la distanza; sensori ovunque; frenata di emergenza se ci si avvicina troppo (mentre si parcheggia) e altre meraviglie della moderna tecnologia. Meraviglie che – per chi come me ha 53 anni e guida dall’età di 18, ha fatto forse un milione di km, con tutti i tipi di auto dal 1988 in poi, con tutti i tempi, ecc. – presto, molto presto, si trasformano in un incubo.

Perché le meraviglie hanno senso in un mondo perfetto, ma nell’impefettissimo mondo (soprattutto quello nazionale) in cui ci muoviamo, è una follia pensare di NON poter stare “sotto” l’auto che abbiamo davanti per poterla sorpassare, perché il radar “legge” che siamo troppo vicini e quindi frena automaticamente l’auto! Così come l’ACC che ci tiene a una distanza tale dall’auto che precede tanto da… farci stare un’altra auto che magari al volo si “butta” in mezzo, così che quella su cui viaggiamo vede un altro ostacolo e frena ancora di più, col rischio di venire tamponati! Una follia assoluta, almeno per me. Quindi c’è da decidere “chi guida”! Mi sono divertito a fare una specie di grafico qualitativo “livello di tecnologia vs. tempo” per dare un’idea di quello che intendo dire:

grafico sicurezza-tempo

Ecco, mentre la vecchia BMW stava sotto la prima riga rossa, la “nuova” Golf stava già tra le due linee rosse. Capisco quindi benissimo di essere “a metà di un processo”, il cui punto di arrivo, ammesso e non concesso che la mobilità privata continui ad assomigliare a quella attuale, è un mondo in cui l’auto sarà una specie di taxi personale al quale vocalmente diciamo dove vogliamo andare e il mezzo ci porterà in tutta sicurezza, schivando pedoni, gatti, biciclette, monopattini (altre auto no, perché saranno “sicure” come quella su cui viaggiamo…), mentre noi leggiamo beatamente il giornale: siamo sopra la seconda linea rossa. Sapete cosa è successo? Ho venduto anche la Golf, sempre per disperazione. Una disperazione di diversa natura, ma pur sempre disperazione. La sicurezza “attiva” (quella in cui l’auto decide in autonomia cosa fare al posto mio) non fa decisamente per me, anche perché non è disinseribile: finché sono io a guidare, guido io e me ne prendo le responsabilità. Perché questa tecnologia, per altro, induce alla deresponsabilizzazione del conducente: “tanto ci pensa l’auto a frenare!”.

Di recente ho letto un interessante libro che consiglio a tutti: Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, di Raffaele Alberto Ventura. Tra le interessanti storie che l’autore racconta c’è anche una bella analisi dell’incendio alla cattedrale di Notre-Dame, avvenuto nel 2019 in cui si raccontano le cause che hanno permesso si realizzasse. In un (altro) ipotetico diagramma, sempre secondo l’autore, da una parte ci sta la competenza (del singolo, di una squadra) a cui è associata un grado elevato di “libertà” (di azione, in caso di pericolo); dall’altra c’è l’automazione, l’automatizzazione del “sistema” (in questo caso antincendio) grazie al quale, almeno in teoria, poter fare a meno della competenza e professionalità (l’umano si trasforma in “operatore”) a cui però è associato un grado basso o quasi nullo di libertà (il “sistema” è codificato e può assumere solo determinate “configurazioni” – magari molte, ma sempre in numero ristretto). Come dice l’autore: «L’altenativa è secca: o il sistema lascia meno autonomia all’umano, trasformandolo in puro operatore, o l’umano, per essere più autonomo, deve anche essere competente, quindi professionalizzato» (op. cit., p. 111) e poco dopo aggiunge: «Nessuna di queste due opzioni – piena automazione contro piena professionalizzazione – è economicamente sostenibile su larga scala. Ed è per questo che la regola della gestione della sicurezza consiste in una soluzione intermedia: tecnologie di sicurezza fallibili che lasciano margini di manovra a esseri umani fallibili» (p. 112).

Mutatis mutandis il ragionamento è applicabile all’auto: non mi sono sentito mai così “insicuro” come sull’auto più sicura che ho posseduto: l’ultima Golf. Non mi considero certo un asso del volante, ma diciamo che me la sono sempre cavata egregiamente, in certi casi anche in condizioni che molti considererebbero proibitive. Basta un po’ di “manico” e capire cosa fa e come reagisce l’auto che abbiamo sotto il sedere (perché ci sono differenze che sono anche sostanziali) se facciamo una mossa anziché un’altra. Ma non lasciamo ancora Ventura, che ancora ci dice (sempre in riferimento all’incendiodi Notre-Dame): «la presenza del sistema di sicurezza stesso, che tende a deresponsabilizzare l’essere umano tanto più quanto viene considerato infallibile» (ibid.). Sono cose ovvie, ma proprio perché tali, tendiamo a non considerarle. Possiedo una Fiat 500 del 1974. Auto “resiliente” – il prossimo anno fa 50 anni! – che ovviamente NON guido come se fosse un’auto moderna per motivi ovvi legati alla sicurezza, alle prestazioni, ecc.: «circondati da macchine e procedure, tendiamo a convincerci che tutto andrà liscio perché progettato in maniera impeccabile, sottovalutando sia l’incertezza strutturale, sia le trasformazioni che potrebbero rendere obsolete le nostre previsioni» (p. 113): se pensi di sorpassare ma l’auto frena nel momento in cui dovresti accelerare è un problema. E potrebbe diventare un problema grave.

Arrivo presto alla conclusione di questo lungo post, nel quale avrei voluto infilare qualche considerazione a margine anche sulla mobilità elettrica (mia moglie ha un’auto elettrica), ma diventerebbe eccessivo. La conclusione è che mi ritrovo nella condizione di due anni fa: in primavera vendo l’auto e con l’arrivo del freddo e del cattivo tempo, capisco che con un mezzo elettrico da città, pur con tutte le necessarie cautele, in due, in questo paese, non ci si fa: serve comunque un mezzo che ci permetta di arrivare un po’ ovunque senza gli assilli delle ricariche (e il plurale è necessario quando hai al massimo 200-250 km di autonomia andando “a passeggio”, ovvero non superando praticamente mai i 100 km/h): se vogliamo andare a trovare amici un po’ distanti o i suoceri o si ricorre ai mezzi pubblici (treni, aerei…) – per carità: opzione sempre possibile – oppure bisogna attrezzarsi diversamente, nonostante tutto, nel 2023, in Italia. Dicevo: la condizione è la stessa di due anni fa, ma l’esperienza diversa: se non altro ho capito cosa NON voglio.

Quindi ho deciso di acquistare una “nuova auto” vecchia. Quindi usata, ma usata da almeno una decina d’anni. Che abbia quindi tutte le sicurezze passive (ABS, airbag, ecc.); che abbia il cruise control, ma NON adattivo – sono io che guido e che capisco QUANDO va disinserito. Insomma: che stia nuovamente sotto la prima linea rossa (partendo dal basso) del grafico qui sopra. Sono “vecchio”? Sì. Ma non ancora così rincoglionito da non saper guidare un’auto!

L’antropocentrismo, le farfalle azzurre, i Pink Floyd

Le volte in cui mi accade di parlare in pubblico di questioni legate all’ecologia, cito un episodio che ho letto in un libro, questo. Tra le interessanti narrazioni che il libro elargisce c’è senz’altro quella secondo cui un bel giorno, alla fine degli anni Settanta, gli amministratori delle verdi campagne del sud dell’Inghilterra si trovarono a fronteggiare una piccola catastrofe ecologica: centinaia di conigli stavano devastando i raccolti. Decisi a non fare una «caccia al coniglio», gli amministratori decisero per una specie di «lotta biologica integrata»: diffondere nella popolazione il virus della mixomatosi che più di un atto di pietà (come poteva essere cacciarli: un colpo secco e magari te lo fai in salmì), a leggere quel che il virus fa ai conigli, sembra un atto di crudeltà, ma tant’è: decisero per quella via e così fecero. Contestualmente a quell’episodio (eradicazione della «piaga» del coniglio selvatico), ciò che nelle verdi campagne inglesi contribuì a rendere l’erba altissima (a breve spiego perché è importante questa faccenda dell’erba) fu la vendita, quasi in massa, del bestiame che gli allevatori non avevano più convenienza a tenere. Così in tutta la zona l’erba – mantenuta «bassa» da conigli e mucche (che ne mangiano circa 70 kg. al giorno) – crebbe senza controllo. Beh, direte voi, ma a noi che ce ne importa? Nella zona (soprav)viveva, con qualche difficoltà, una specie in via d’estinzione: una bella farfalla azzurra, la Maculinea Arion – annoverata tra le specie estinte in Europa (secondo un elenco su Wikipedia), ma forse, secondo altre fonti (il sito dell’Unione eropea e un progetto europeo «Life+»), attualmente presente, sempre in modo un po’ precario in varie parti, compresa l’Italia.

Insomma: la Arion scompare in concomitanza con i conigli selvatici. Naturale chiedersi (come in effetti si sono chiesti): c’è una relazione? La risposta è stata: sì c’è una relazione. La Maculinea Arion infatti, a dispetto della sua bellezza, ha un rapporto di parassitoidismo nei confronti delle formiche (Myrmicae) delle specie scabrinodis e sabuleti: lascia che le sue larve vengano covate dalle formiche, che però prediligono – e hanno di fatto come habitat – terreni con erba bassa. Che però, abbiamo visto, con la scomparsa dei conigli e delle mucche, non c’è più stata.

Uso questo esempio per mostrare quando, anche in «buona fede» si cerca di porre rimedio a una situazione, a volte si fanno danni. Per carità: danni che in questo caso sono stati riparati dalla tutela della specie, da una «attenzione» rivolta all’ecologia, ma dove il movente iniziale è stato «antropocentrico»: rimuovere il flagello dei conigli.

L’esempio mi ha fatto tornare alla mente un episodio raccontatomi da un conoscente, legato a un concerto dei Pink Floyd che si tenne a Venezia, uno degli «ecosistemi umani» (e urbani) più fragili al mondo, i 15 luglio 1989. Le due cose non sono così connesse in realtà, se non per l’impatto dirompente che l’essere umano ha, in ogni sua forma, quando arriva in zone fragili (Venezia) nella più completa disorganizzazione. L’intento era in sé buono (ascoltare buona musica) e bello (farlo a Venezia), ma la sua realizzazione, come mostra questa (1, 2, 3 e 4) rassegna stampa recuperata sul web, fu un vero e proprio flagello.

Il conoscente poi – che, ancora ragazzino, al concerto andò col padre – ricorda «i pesci morti in laguna», ma di questa notizia non ne ho trovato traccia (ancora una volta: antropocentrismo – e… chi se ne frega dei pesci morti? – Oppure un «falso ricordo» dove ai pesci forse bisogna sostituire le bottiglie di palstica e la spazzatura che è rimasta lì per due giorni?), se non qui, ma riferita a tutt’altro contesto e a tutt’altro concerto.

Il Pink Floyd pig

Il «Pink Floyd pig», da Wikipedia

Una piccola-grande felicità (professionale)

Il blog è personale e quindi ogni tanto scrivo anche cose che mi riguardano da vicino. Magari con un po’ di discrezione, senza “sbandierare”, ma al solito solo per chi vuole leggere. E’ passata una settimana, ma l’ho saputo solo questo lunedì e in certi momenti ancora mi sembra irreale. E’ successo quello che ho ardentemente sperato da due anni a questa parte e, con particolare intensità, dall’ultimo “scorrimento in graduatoria” che fecero, con la persona davanti a me, alla fine di gennaio del 2022.

Un po’ di storia personale e di “retroterra”: chi mi conosce sa quanto io sia testardo e quanto tenda a non demordere dai miei propositi. Per molte cose ho avuto una discreta volontà – per carità: come molte altre persone, intendiamoci – a partire dall’essere lavoratore-studente, a laurearmi con discreto sacrificio, in ritardo, dopo aver cambiato facoltà, ma con l’obiettivo di portare a termine il percorso. Poi ho fatto un master (2002-2004, alla Sissa a Trieste in “comunicazione della scienza”), poi un secondo master (nell’anno accademico 2011/2012 all’Università di Pisa, dove mi ero laureato, in “tecnologie internet”), infine un dottorato all’Università di Trento nel triennio (accademico) 2015-2018.

Al Consiglio Nazionale delle Ricerche, dove sono entrato come tecnico “semplice” (con la sibillina dizione CTER, Collaboratore Tecnico Enti di Ricerca), al VI livello (ma già con una laurea e un master), nel 2011, ho fatto davvero un po’ di tutto, nel limite di quanto mi è stato possibile: il tecnico (appunto), il divulgatore scientifico per l’intera Area della Ricerca di Pisa e persino un po’ di ricerca, dopo il dottorato.

Concorsi non ne sono usciti per anni e, in piena pandemia, una collega mi segnala quello da “1° tecnologo per la comunicazione”. Invio i materiali – il concorso era per titoli e colloquio – e vengo selezionato per l’orale. Bravura? Fortuna? Sono portato a pensare decisamente più alla seconda. Non so quante domande ci siano state, ma certamente moltissime, e a fare l’orale siamo arrivati in 11. Non ho fatto un buon orale – ero troppo teso, troppo “su di giri” e alla fine, nel tentativo di impressionare la commissione, ho sbagliato tutto, quindi: 11esimo su 11. Ultimo. Fine della storia.

Invece, a un certo punto, hanno cominciato a prendere il secondo, poi il terzo, ecc. Lo scorrimento è stato rocambolescamente agevolato dallo scorrimento di un’altra graduatoria in cui erano alcune persone del “mio” concorso. Questo ha fatto sì che rinunciassero alla posizione nel concorso in cui ero, per prendere il posto nell’altra graduatoria (che dava almeno un anno di anzianità in più). Ultimo scorrimento: fine gennaio 2022. Da oltre un anno non sapevo se sarebbero mai arrivati in fondo e dopo aver non dormito, essermi incolpato per aver fatto un pessimo orale ed essere arrivato ultimo, aver chiesto a tutti i sindacati, aver scritto a destra e a manca, essermi rassegnato, ecco che finalmente lunedì una collega, anche lei in attesa dello scorrimento per un altro concorso da 1a ricercatrice, mi dice: «ma guarda che non ti arriva nessuna comunicazione, devi andare tu a vedere nella documentazione del concorso!» – beh, rientro in ufficio e la prima cosa che faccio è andare a vedere: in effetti c’è una riga in più. Apro il PDF allegato e si dice che, sì, con me arrivano ad esaurire la guarduatoria così da chiudere definitivamente quel bando. Anche io sono “dentro”.

Adesso, a una settimana di distanza da quel documento caricato sul portale del CNR, son qui che ne scrivo e in certi momenti ancora non ci credo. E’ difficile dire quanto impegno, speranze, competenze si sono “puntate” su una cosa (una legittima progressione di carriera?), per accorgersi che quasi niente di quella “cosa” dipende da te e i tuoi meriti possono valere poco o niente o tutto. Se questo da un lato dovrebbe rasserenare (alla fine non dipende da te!), dall’altro non può non indurre uno stato depressivo: il sistema funziona così e tu hai vinto il concorso 12 anni fa, hai accettato il posto di lavoro, accettando implicitamente le regole che lo governano. Quindi devi accettare anche il fatto che per 12 anni sei stato CTER VI livello senza fare un passetto avanti, nonostante tutto il lavoro fatto, riassumibile in una decina di pagine di curriculum. E accettando il fatto che, siccome il concorso l’hai vinto a 41 anni, “da vecchio”, adesso che ne hai 53 non hai praticamente più nessun margine per cambiare lavoro e “morirai” (lavorativamente parlando) CTER VI livello. O forse V. Non proprio una bella prospettiva, insomma.

E invece, per quanto ormai rassegnato e pronto ad accettare la situazione, la situazione è cambiata. E ancora, ripeto, stento a crederci.

Plastica! – E un po’ di “cultura materiale”

L’evento che scatena queste riflessioni è accaduto ieri mattina, ma se ne sono, nel frattempo, concatenati altri. Si tratta di una tazza. Una normalissima tazza da colazione che mi accompagna, anzi: ci accompagna – con mia moglie – da minimo una decina d’anni. Non sappiamo come e non ricordiamo neppure le circostanze, ma un giorno – di una decina d’anni fa, o forse più – ci accorgemmo che dietro l’intenso blu della tazza si era formata una impercettibile crepa, quella che sembrava essere più che altro una cavillatura, ma che a un attento esame, si capiva proseguire come minacciosa incrinatura che sembrava dover sentenziare una vita breve per questo oggetto (per altro, proprio in corrispondenza di questa linea sottile, a un certo punto il bordo si è sbeccato, rendendo evidente il fenomeno di deterioramento).

Ho/abbiamo continuato a usarla, senza pensarci, per tutti questi anni, immaginando che prima o poi, lavaggio dopo lavaggio (a mano, in lavastoviglie…) si sarebbe rotta e amen. Invece è stato molto poi che prima, visto che la tazza mi si è rotta ieri mattina dopo (almeno) un trasloco da una casa all’altra. Sono “morte” prima stoviglie molto più “sane” rispetto a questa che, appunto, solo ieri mattina, scivolatami di mano a un centimentro dall’appoggio sul cestello della lavastoviglie ha “toccato” un’altra stoviglia e si è definitivamente infranta…

Perché raccontare questa storia, con tale dovizia di dettagli? Perché nell’era dell’usa e getta in cui (ancora) viviamo, questa è, come tante altre, una storia paradigmatica di quanto gli oggetti possono durare e come molti di questi possono sopravvivere anche alla nostra stessa esistenza (pensiamo banalmente agli orologi del nonno…).

Gli altri eventi che si sono concatenati per dar seguito a questa riflessione sono vari. Il primo e più banale, è contenuto in quel film – ormai un cult – in cui a un giovanissimo Dustin Hoffman veniva detta una sola parola, la parola dell’avvenire: plastica! (La godibilissima clip video si trova come sempre su YouTube) – La direzione che ha preso il mondo è stata quella e mai parole furono più profetiche…

Della plastica sappiamo tutto e oggi, soprattutto, sappiamo quanti danni fa, a partire da questo recente incidente avvenuto negli Stati Uniti, su cui Ugo Bardi riporta nel suo blog su Il fatto quotidiano. E della plastica, e della sua degradazione “naturale”, parla proprio uno speranzoso post di Claudio Della Volpe sul blog della Società di Chimica Italiana.

Ultimo riscontro “pop” che mi ha fatto pensare a questa storia è un vecchio “rimedio” – tanto vecchio quanto dimenticato – del vuoto a rendere. L’aspetto “pop” deriva dalla notizia legata all’uscita di una nuova versione di una vecchia canzone(tta) di Gianni Morandi, Fatti mandare dalla mamma. La nuova versione – rivista e corretta secondo i canoni estetici di oggi – è di fatto molto simile all’originale, ma soprattutto, similmente all’originale, la coreografia mette in mano ai ballerini e ballerine una bottiglia che nell’originale verosimilmente sarà stata di vetro, mentre oggi sarà di un vetro simulato (quindi ancora una volta plastica). Il rimedio, lo avete capito, sarebbe quello di tornare a usare il vetro o materiali infrangibili – magari la stessa plastica, ma in una formulazione fatta per durare – che diano uno stop all’usa e getta e rallentino il processo di consumo indiscriminato. Molti oggetti ci sopravvivono, ma non dovremmo soccombere a causa degli effetti inquinanti che questi oggetti producono.

 

The Midnight Sky

L’altra sera, in assenza di meglio (Sanremo giammai! Preferisco andare a letto senza cena…), mi sono (ri)visto – ebbene sì, credevo di NON averlo visto, ma poi invece qualche ricordo è tornato e con esso qualche preoccupazione sulla tenuta della mia memoria… – The Midnight Sky, un film di e con George Clooney.

Un film che faccio fatica a definire: è una fantascienza molto sui generis, nel senso che sì il film è ambientato nel futuro, ma è un futuro talmente vicino (2049) che potrebbe alla fine essere anche oggi. O meglio: no, oggi no. Nel senso: da qui a 30 anni (anche scarsi) le previsioni di come andrà il mondo sono tendenzialmente piuttosto catastrofiche, al punto che tra le ipotesi c’è anche un completo scioglimento dei ghiacciai artici (metto qui il link a un articolo de Il Sole 24 Ore), soprattutto per un deleterio effetto autorinforzante (ma negativo) dell’albedo – spiegato comunque nell’articolo.

Clooney invece, nonostante questa ipotesi se ne sta relativamente tranquillo in una base artica non meglio specificata dove ghiaccio e tormente imperversano ancora abbastanza serenamente, e vabbè. Siamo già tornati in piena era di viaggi spaziali, almeno per ciò che concerne il nostro sistema solare, alla ricerca di un esopianeta (un pianeta cioè che per caratteristiche possa essere simile alla Terra e quindi abitabile e colonizzabile da noi umani, così tanto per vedere in quanto tempo riusciamo a disintegrare anche quello) che pare sia un fantomatico satellite di Giove di cui non ci siamo accorti fino ad ora (ovviamente nella finzione della pellicola), chiamato K23 forse in assonanza con un reale esopianeta, K2-3 d, che però ha solo il difettuccio, tra molti altri che non ne garantiscono una “vera abitabilità”, di trovarsi a 137 anni luce da qui. Insomma se si viaggia per tutto il tempo a 300mila chilometri al secondo lo si raggiunge in 137 anni. E’ vero che nell’intorno di quelle velocità il tempo trascorre molto più lentamente (relatività einsteiniana), ma sempre 137 anni sono!

locandina del film

Locandina del film

Comunque: il film si fa presto introspettivo. Lui è solo in questa base, è malato terminale (cancro?), è (stato) uno scienziato di fama, incapace di una relazione sentimentale stabile (pure questo un po’ un cliché…) che in sostanza fa i conti o meglio: fa lo spettatore di quello che a tutta prima sembra un conflitto nucleare mondiale, mentre una missione spaziale tenta di rientrare dal fantomatico K23… C’è quindi una vicenda personale innestata sull’onda dell’apocalisse di fronte alla quale i pochi umani che interagiscono [lui, dentro la base, con fuori un tempo perennemente ostile e il rischio che da un momento all’altro l’area venga contaminata dalle radiazioni nucleare; gli altri, dentro un’astronave che, appena fanno una passeggiata fuori, vengono letteralmente presi a sassate dai frammenti di un asteroide (supponiamo) esploso chissà dove e chissà quando (scena che riprende abbastanza da vicino – e mostra molto bene quanto sia ostile lo spazio al di là del sottile guscio che preserva la vita – le scene di un altro film – che ho trovato francamente migliore di questo – Gravity, del 2013) e una del già sparuto gruppetto dell’equipaggio ci lascia le penne…] non possono che constatare la loro impotenza insieme alla loro idiozia collettiva.

Così la Terra diventa “fionda gravitazionale” per l’astronave che fa una inversione a U e torna su K23, mentre il mondo muore tra radiazioni, stenti e patimenti (immaginiamo, visto che il film già così dura 2 ore…). Bah, che dire? Bello il paesaggio, bella la fotografia, ma la storia, a parte il pessimismo cosmico e personale di cui è intrisa (di cui francamente non sentivamo un gran bisogno…), non sembra avere grande consistenza (ma devo essere in minoranza perché il film pare abbia preso un certo numero di premi).

PS: per avere un’idea anche semplice di quanto sia pericoloso “stare là fuori” leggete questo articolo

 

 

Cos’è l’immortalità

Talvolta per spiegare dei concetti sfuggenti, come questo, piuttosto impegnativo, su cosa sia l’immortalità, è necessario ricorrere a degli esempi.

A Carlo Verdone, non so in quale programma né quanto tempo fa, chiesero un po’ a bruciapelo: «ma per te Carlo, cos’è la vecchiaia?». Per il celebre attore, notoriamente affetto da ipocondria, mai domanda fu più azzeccata di questa. Allora, non avendo parole per definirla – anche perché, qui come altrove, sembra non esserci nulla di più soggettivo: c’è chi si sente “vecchio” a vent’anni e chi “giovane” a settanta, senza considerare che parliamo di un concetto che contempla un misto di condizione mentale e condizione fisica – la mimò.

Sì giro spalle al pubblico/alla telecamera seduto su una sedia e disse qualcosa del tipo: la gioventù è quella cosa per cui quando qualcuno, chiamandoti da dietro: «Mario!», in una frazione di secondo ti giri per vedere chi è (e fa il gesto rapido di voltare la testa verso il pubblico); la vecchiaia è quella condizione per la quale, di fronte allo stesso richiamo: «A Mario!», c’hai il collo talmente incriccato che ti ci vuole un quarto d’ora per compiere la stessa rotazione. Ecco, quella è la vecchiaia. Risate e applausi.

Cercherò quindi di mostrare con un esempio, magari non così ilare, ma forse capace di suscitare qualche sentimento nel lettore, cos’è l’immortalità e come la si raggiunga. Se si legge la biografia – anche quella breve che si trova su Wikipedia – di Antonio Vivaldi, si scopre che la sua vita «è scarsamente documentata, poiché prima del XX secolo nessun biografo si è mai occupato di ricostruirla. Numerose lacune e inesattezze falsano ancora la sua biografia; alcuni periodi della sua vita rimangono completamente oscuri, come i molti viaggi supposti, o realmente intrapresi, in Italia e in Europa. Si è fatto riferimento dunque alle rare testimonianze dirette dell’epoca, in particolare quelle di Charles de Brosses, di Carlo Goldoni e dell’architetto tedesco Johann Friedrich Armand von Uffenbach, che incontrarono il compositore. Altre notizie provengono da alcuni manoscritti e documenti di altra natura, ritrovati in diversi archivi in Italia e all’estero. Per dare due esempi concreti: è soltanto nel 1938 che si è potuta determinare con esattezza la data della sua morte, sull’atto ritrovato a Vienna, e nel 1963 quella della sua nascita, identificando il suo atto di battesimo (prima, l’anno di nascita, il 1678, era soltanto una stima dedotta dalle tappe conosciute della sua carriera ecclesiastica)».

Una condanna all’oblio in sostanza legata alla fisiologia del tempo che passa e su cui noi, singoli, tranne rarissime eccezioni, non lasciamo traccia (pur illudendoci costantemente di farlo). Un oblio da cui Vivaldi sembra salvarsi un po’ in extremis grazie alla meritoria opera di alcuni musicologi. Poco sopra infatto lo sketch biografico, recita: «Come per molti compositori barocchi, dopo la sua morte il suo nome e la sua musica caddero nell’oblio. Solo grazie alla ricerca di alcuni musicologi del XX secolo, come Arnold Schering, Marc Pincherle, Alberto Gentili e Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, il suo nome e le sue opere tornarono celebri, diventando uno dei compositori più noti ed eseguiti».

Quindi Vivaldi è salvo, è parte della storia della musica mondiale, è conosciuto, ha pure qualche citazione pop un po’ provocatoria (ricordate una delle frasi di Bandiera bianca cantata da un giovanissimo Franco Battiato? «A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata / a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie») ma… pur sempre rimane lì, nell’olimpo un po’ polveroso della musica classica.

Poi però succede che un giovane compositore tedesco (ah ‘sti crucchi quando incontrano gli italiani…) di cui invece sappiamo tutto, Max Richter, che se ne innamora e decide di “ricomporre” le sue Quattro stagioni per dar vita a qualcosa che personalmente ho trovato e trovo letteralmente folgorante, specialmente per la sua “intro”, Spring 1. Ecco l’immortalità è questa cosa qui: “sopravvivere” e poi sconfiggere il tempo, con un po’ di fortuna, la fortuna che ha voluto che la propria opera fosse riscoperta nel secolo scorso e che incrociasse, in questo secolo, qualcuno che se ne innamorasse, dando vita a una rivisitazione che parla alle nostre anime, così che quegli archi le facciano vibrare, almeno un po’, sulle note di quell’ignoto sacerdote del ‘600 il cui dato biografico scompare nelle nebbie del tempo.

Antonio Vivaldi

Il celeberrimo ritratto presunto di Antonio Vivaldi (anonimo, XVIII secolo, circa 1723) conservato nel Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna. Vivaldi in vita fu ritratto 3 volte.

Il miracolo di Valby

La premessa è: ci sono questioni che ci rimangono appiccicate addosso. Magari, come in questo caso, si tratta di dettagli e magari dettagli legati alle contingenze. Va bene esplicito meglio: le contingenze sono quelle che tutti noi abbiamo provato almeno una volta, quelle della malattia – non grave: influenza, febbre, magari in quella fase di miglioramento in cui si è ancora giustificati nello stare a casa in pigiama, ma ormai è andata, non si sta più male e si tratta solo di aspettare un altro po’ per ributtarsi nel mondo. Malattia che ci giustifica – proprio come a scuola – e ci dispensa dalle “questioni del mondo” perché ancora siamo ragazzi e la nostra presenza, se mai un giorno lo sarà, in quel momento non è determinante in nessuna circostanza.

Quindi: ero malato. Diciannovenne, ventenne, non ricordo, ma non è importante. Importante è che stando a casa potevo godermi il mio pomeriggio da convalescente e feci una cosa che non facevo mai (e meno che mai di pomeriggio): accesi la tv, “zappando” (facendo cioè zapping). Mi imbattei nelle scene di un film appena iniziato (ancora scorrevano i titoli di testa) e decisi di dargli una possibilità. La storia era intrigante perché in primo luogo riguardava quel filone “immenso” che sono i viaggi nel tempo che, almeno a partire da H. G. Wells in poi (La macchina del tempo), intriga molti di noi (alcuni per niente, ma non tutti abbiamo gli stessi gusti…) e, in secondo luogo, aveva a che fare non propriamente con la fantascienza in senso stretto, ma con una realtà normale, che di colpo, nella finzione cinematografica, ci proietta nell’inatteso, nell’evento imponederabile che fa essere il/i protagonista/i altrove nel tempo (ma non nello spazio, perché il salto è solo temporale).

Queste le contingenze. Quindi passo al dettaglio, uno solo: ho cercato a momenti alterni, per anni, di rintracciare almeno il titolo di quel film, almeno una traccia. Non l’ho fatto sistematicamente, ma nei momenti in cui i ricordi, a tratti un po’ struggenti (magari dovuti ai postumi della malattia), di quel film “perso” si sono fatti più acuti. Questo è di nuovo uno di quei periodi e del film non sapevo nulla (regista, protagonisti) ma ricordavo che era una produzione “nordica” (sì ma: norvegese? danese? svedese?…) e soprattutto ricordavo che la macchina del tempo era costituita da una roulotte abbandonata in un campo, dentro la quale il protagonista stava in contatto col padre via radio, durante le lunghe assenze di quest’ultimo, imbarcato come ufficiale telegrafista su una nave della Marina. Poteva essere sufficiente?

Stamattina ho riprovato e… ci sono riuscito. Non era possibile che non trovassi più nulla di questo film! E infatti mettendo sul motore di ricerca per eccellenza (Google) “macchina del tempo/time machine roulotte film” ho addirittura trovato una voce Wikipedia in italiano che ne parla, questa, segno che il film, lungi dall’essere un “B movie” e quindi caduto nel dimenticatoio della messa in onda sulla tv pubblica italiana in un’unica occasione di un giorno X di un anno Y, ha un certo valore (sulla voce Wikipedia sono indicati anche alcuni premi – magari piccoli – che la pellicola ha vinto).

Insomma: una piccola soddisfazione (bastava forse cercare nel modo giusto…), a cui come prossimo passo sarebbe da aggiungere la possibilità di recuperare il film, ma dove? Sul web non ve n’è traccia e davvero in questo caso non saprei da che parte cominciare. Intanto per oggi, dopo anni, mi accontento di essermi levato il periodico assillo e la periodica nostalgia per qualcosa che era andata persa nei meandri della giovinezza e di un tempo definitivamente passato, per tacere della possibilità di ogni “macchina del tempo” presunta o reale.

La trama, che tanto mi intrigò in quel pomeriggio di moltissimi anni fa, adesso, raccontata su Wikipedia, mi pare anche un po’ “sempliciotta”, ma forse alla fine quello è un film per ragazzi, visto che protagonisti sono dei ragazzi che nel tempo fanno avanti e indietro.

Ah: sul web ho ritrovato anche la locandina…

locandina del film "Il miracolo di Valby"

Locandina del film “Il miracolo di Valby”

 

L’ultima volta

Ci sono episodi che sono sassate. Sassate che ci risvegliano di colpo da un torpore nel quale eravamo caduti, pur consapevoli di tutto e, soprattutto, del tempo che passa. Per chi ha figli la misura del tempo che passa sono loro. Per chi non li ha (avuti o ancora avuti…) la questione si fa più vaga, perché i riferimenti lo sono. Poi può sempre succedere che un genitore o un caro venga meno e quello diventa un’altra tacca su cui misurare questo tempo che scorre, ineluttabile.

Oggi per me la “tacca” – non drammatica per fortuna, ma non meno traumatica – è stato il congedo dal mio barbiere storico, Domenico o anche, per gli amici, diminuito con la classica troncatura: “Domè”. Non sono in grado di fare i conti precisi, ma credo di essere andato da lui sin dalla mia (im)maturità di giovane adulto, intorno ai vent’anni. Se anche fossero 22, oggi sarebbero 30 anni che vado da Domè a “farmi i capelli”, come si dice dalle parti di Massa, in una espressione curiosa e forse più comprensiva e benevola di un riduttivo taglio (“mi sono tagliato i capelli”, ma dal barbiere non si va solo per quello, soprattutto quando ne hai pochi, sempre meno, e c’è poco da tagliare…).

Così, mentre ero alla poltrona alla domanda di rito (ma non retorica, dopo trent’anni) “come va?”, la risposta è stata semplice e secca: “non benissimo, qualche acciacco fisico che mi affatica: a fine anno chiudo”. Non sapevo cosa dire, ma ho realizzato che era l’ultima volta che Domè mi tagliava, anzi: mi “faceva”, i capelli. Mi ha visto, con costanza, nelle stagioni più importanti della mia vita; mi ha visto con venti chili in meno, dopo il grave incidente in moto che ho avuto; mi ha visto a poche ore dal matrimonio, per la sistemazione di capelli e barba – quest’ultima non me la sono mai fatta fare da nessuno, prima di allora (e mio padre mi raccontò una volta che anche lui fece lo stesso). E adesso è tutto finito. Così come iniziò un giorno di molti anni fa, dentro quella bottega che è rimasta sempre la stessa.

Tale e tanta era la confindenza che ci sono andato anche quando abitavo a Torino e coglievo l’occasione dei miei rientri a casa dei miei, per una “sforbiciata”. So che tutto questo può sembrare di scarsa rilevanza e forse anche assurdo, soprattutto in un mondo come il nostro, in cui tutto cambia, e cambia alla svelta. Ma oggi mi sento orfano. Orfano di barbiere. Orfano di quel testimone (e forse “custode”) involontario che Domenico è stato della mia vita.

Così per ricordarmi di questo momento di congedo, gli ho chiesto a bruciapelo una foto, questa, al suo “posto di combattimento”. Ciao Domenico, buona vita, e grazie delle chiacchiere – e non meno dei prezzi, che hai sempre voluto tenere popolari.

Domenico, il barbiere

Domè, il mio barbiere…

Nostalgia di Luca

La mente, soprattutto quando si tratta di ricordi (che, dicono gli specialisti, sono in realtà ricordi di ricordi), fa strani percorsi. Stamattina, domenica mattina, leggevo il Diario degli errori di Ennio Flaiano, un insieme di pensieri sparsi su viaggi, impressioni che da questi viaggi sono scaturite, ecc. Tutte riflessioni molto brevi, spesso meno di una paginetta e quasi sempre pochi, fulminanti, righe – questa, in generale e senza ombra di dubbio, tra le grandi qualità di un grande scrittore. Vale la pena riportare quella numerata con il [103] dell’edizione Adelphi in mio possesso:

Freddo e vento sul Boulevard de Clichy. Le baracche dei giochi sono deserte. Una soltanto mi sembra affollata e un tiro alla carabina, senza premi, acconciato come un palcoscenico. Con cinquanta franchi si sparano dieci colpi e si possono mettere in moto, colpendo il bersaglio (un puntino rosso), varie scene di burattini. Sono scene di supplizi. C’è il capestro, la decollazione, lo squartamento, la fucilazione. Basta colpire il centro di ogni quadretto e la scena si anima per qualche istante in un balletto macabro e legnoso. Il condannato viene preso, impiccato, i frati levano le croci al cielo, il boia toglie lo sgabello, ecco il burattino che precipita in un sacco. […]

La descrizione della scena va avanti con dovizia di particolari e le conclusioni che Flaiano ne trae sono interessanti: «La morte in Francia è una cosa che può essere data dallo Stato, è quindi nella mitologia popolare, forma il fondo della serietà dei giovani, che ci scherzano sopra, ma vogliono vedere come funziona».

Questo pezzetto mi riporta alla mente quel me stesso bambino che ha visto – o crede di aver veduto, chi lo sa – durante la propria infanzia, a qualche fiera, di quelle di paese, di quelle con le giostre e lo zucchero filato di quando ancora stavo a Pinerolo, una di queste “macchine” in cui si mette alla prova la propria mira. Una delle tante, tantissime cose che dal passato sono state inghiottite nel silenzio. Chi adesso spara non lo fa più per scherzo o per mettersi alla prova, ma forse va ad allenarsi in un poligono. Non so se ci siano motivi precisi per questo, ma sta di fatto che questa storia della carabina che, se si centra il puntino rosso, mette in moto “qualcosa” mi ha riportato prepotente alla mente un tipo speciale di questo “gioco” per cui, centrando il bersaglio (puntino rosso o altro che sia) al protagonista, in premio, veniva scattata un’istantanea. Questa è esattamente l’immagine di un copertina di un libro molto bello, Piove all’insù di Luca Rastello – qui di seguito la copertina del libro.

la copertina del libro "piove all'insù"

La copertina del libro “Piove all’insù” di Luca Rastello.

Luca mi disse – ma tra gli amici, anche quelli meno intimi, come lo ero io, questo non era un mistero – che il tizio nella foto, con la carabina in mano, che aveva appena fatto centro, era suo padre. Gli anni erano quelli: Flaiano scrive quell’appunto di diario nel 1958 e la foto del padre di Luca è, anno più anno meno, credo di quel periodo, almeno a giudicare dall’eleganza nel vestire. Così ho chiuso il libro di Flaiano e ho pensato a quanto Luca mi manca. Non avevamo rapporti continuativi, ma il tempo che ci siamo frequentati di persona, quasi sempre a casa sua in via Nizza, è stato un tempo intenso, forte, di confronto. Ancora una volta un fratello maggiore che, seppure con le intermittenze del caso, sapeva essere “stella polare”, sapeva dire da che parte era preferibile andare lungo i sentieri accidentati che la vita ci pone continuamente di fronte. Chissà se fosse ancora qui quanto ancora avrebbe detto e scritto, quanto ancora avrebbe “distillato” per noi – suoi lettori, ma in qualche caso speciale anche suoi amici – il sapere che faceva da bussola in primo luogo per lui. Senza però dimenticare l’ironia con la quale vedeva se stesso, il gusto della narrazione, grazie alla quale veniva naturale abbandonare orologi e telefoni cellulari da qualche parte, per dimenticarsene volutamente e poi ritrovarli meravigliati di essere stati così tanto assenti, assorbiti, come solo una volta – quando i cellulari non c’erano – si poteva essere. E con Luca era sempre tutto tempo guadagnato, si aveva sempre l’impressione di portare a casa qualcosa, spesso un regalo in forma di narrazione.

Mi manchi Luca e se manchi a me, che pure sono passato di sfuggita nella tua vita, non oso pensare a quanto manchi a persone con le quali hai condiviso di più. Un abbraccio, a te che hai promesso l’ultima volta – te lo ricordi? – che saresti andato solo dietro l’angolo, forse memore di quel Pessoa che diceva: «La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto».