L’ultima volta

Ci sono episodi che sono sassate. Sassate che ci risvegliano di colpo da un torpore nel quale eravamo caduti, pur consapevoli di tutto e, soprattutto, del tempo che passa. Per chi ha figli la misura del tempo che passa sono loro. Per chi non li ha (avuti o ancora avuti…) la questione si fa più vaga, perché i riferimenti lo sono. Poi può sempre succedere che un genitore o un caro venga meno e quello diventa un’altra tacca su cui misurare questo tempo che scorre, ineluttabile.

Oggi per me la “tacca” – non drammatica per fortuna, ma non meno traumatica – è stato il congedo dal mio barbiere storico, Domenico o anche, per gli amici, diminuito con la classica troncatura: “Domè”. Non sono in grado di fare i conti precisi, ma credo di essere andato da lui sin dalla mia (im)maturità di giovane adulto, intorno ai vent’anni. Se anche fossero 22, oggi sarebbero 30 anni che vado da Domè a “farmi i capelli”, come si dice dalle parti di Massa, in una espressione curiosa e forse più comprensiva e benevola di un riduttivo taglio (“mi sono tagliato i capelli”, ma dal barbiere non si va solo per quello, soprattutto quando ne hai pochi, sempre meno, e c’è poco da tagliare…).

Così, mentre ero alla poltrona alla domanda di rito (ma non retorica, dopo trent’anni) “come va?”, la risposta è stata semplice e secca: “non benissimo, qualche acciacco fisico che mi affatica: a fine anno chiudo”. Non sapevo cosa dire, ma ho realizzato che era l’ultima volta che Domè mi tagliava, anzi: mi “faceva”, i capelli. Mi ha visto, con costanza, nelle stagioni più importanti della mia vita; mi ha visto con venti chili in meno, dopo il grave incidente in moto che ho avuto; mi ha visto a poche ore dal matrimonio, per la sistemazione di capelli e barba – quest’ultima non me la sono mai fatta fare da nessuno, prima di allora (e mio padre mi raccontò una volta che anche lui fece lo stesso). E adesso è tutto finito. Così come iniziò un giorno di molti anni fa, dentro quella bottega che è rimasta sempre la stessa.

Tale e tanta era la confindenza che ci sono andato anche quando abitavo a Torino e coglievo l’occasione dei miei rientri a casa dei miei, per una “sforbiciata”. So che tutto questo può sembrare di scarsa rilevanza e forse anche assurdo, soprattutto in un mondo come il nostro, in cui tutto cambia, e cambia alla svelta. Ma oggi mi sento orfano. Orfano di barbiere. Orfano di quel testimone (e forse “custode”) involontario che Domenico è stato della mia vita.

Così per ricordarmi di questo momento di congedo, gli ho chiesto a bruciapelo una foto, questa, al suo “posto di combattimento”. Ciao Domenico, buona vita, e grazie delle chiacchiere – e non meno dei prezzi, che hai sempre voluto tenere popolari.

Domenico, il barbiere

Domè, il mio barbiere…

Nostalgia di Luca

La mente, soprattutto quando si tratta di ricordi (che, dicono gli specialisti, sono in realtà ricordi di ricordi), fa strani percorsi. Stamattina, domenica mattina, leggevo il Diario degli errori di Ennio Flaiano, un insieme di pensieri sparsi su viaggi, impressioni che da questi viaggi sono scaturite, ecc. Tutte riflessioni molto brevi, spesso meno di una paginetta e quasi sempre pochi, fulminanti, righe – questa, in generale e senza ombra di dubbio, tra le grandi qualità di un grande scrittore. Vale la pena riportare quella numerata con il [103] dell’edizione Adelphi in mio possesso:

Freddo e vento sul Boulevard de Clichy. Le baracche dei giochi sono deserte. Una soltanto mi sembra affollata e un tiro alla carabina, senza premi, acconciato come un palcoscenico. Con cinquanta franchi si sparano dieci colpi e si possono mettere in moto, colpendo il bersaglio (un puntino rosso), varie scene di burattini. Sono scene di supplizi. C’è il capestro, la decollazione, lo squartamento, la fucilazione. Basta colpire il centro di ogni quadretto e la scena si anima per qualche istante in un balletto macabro e legnoso. Il condannato viene preso, impiccato, i frati levano le croci al cielo, il boia toglie lo sgabello, ecco il burattino che precipita in un sacco. […]

La descrizione della scena va avanti con dovizia di particolari e le conclusioni che Flaiano ne trae sono interessanti: «La morte in Francia è una cosa che può essere data dallo Stato, è quindi nella mitologia popolare, forma il fondo della serietà dei giovani, che ci scherzano sopra, ma vogliono vedere come funziona».

Questo pezzetto mi riporta alla mente quel me stesso bambino che ha visto – o crede di aver veduto, chi lo sa – durante la propria infanzia, a qualche fiera, di quelle di paese, di quelle con le giostre e lo zucchero filato di quando ancora stavo a Pinerolo, una di queste “macchine” in cui si mette alla prova la propria mira. Una delle tante, tantissime cose che dal passato sono state inghiottite nel silenzio. Chi adesso spara non lo fa più per scherzo o per mettersi alla prova, ma forse va ad allenarsi in un poligono. Non so se ci siano motivi precisi per questo, ma sta di fatto che questa storia della carabina che, se si centra il puntino rosso, mette in moto “qualcosa” mi ha riportato prepotente alla mente un tipo speciale di questo “gioco” per cui, centrando il bersaglio (puntino rosso o altro che sia) al protagonista, in premio, veniva scattata un’istantanea. Questa è esattamente l’immagine di un copertina di un libro molto bello, Piove all’insù di Luca Rastello – qui di seguito la copertina del libro.

la copertina del libro "piove all'insù"

La copertina del libro “Piove all’insù” di Luca Rastello.

Luca mi disse – ma tra gli amici, anche quelli meno intimi, come lo ero io, questo non era un mistero – che il tizio nella foto, con la carabina in mano, che aveva appena fatto centro, era suo padre. Gli anni erano quelli: Flaiano scrive quell’appunto di diario nel 1958 e la foto del padre di Luca è, anno più anno meno, credo di quel periodo, almeno a giudicare dall’eleganza nel vestire. Così ho chiuso il libro di Flaiano e ho pensato a quanto Luca mi manca. Non avevamo rapporti continuativi, ma il tempo che ci siamo frequentati di persona, quasi sempre a casa sua in via Nizza, è stato un tempo intenso, forte, di confronto. Ancora una volta un fratello maggiore che, seppure con le intermittenze del caso, sapeva essere “stella polare”, sapeva dire da che parte era preferibile andare lungo i sentieri accidentati che la vita ci pone continuamente di fronte. Chissà se fosse ancora qui quanto ancora avrebbe detto e scritto, quanto ancora avrebbe “distillato” per noi – suoi lettori, ma in qualche caso speciale anche suoi amici – il sapere che faceva da bussola in primo luogo per lui. Senza però dimenticare l’ironia con la quale vedeva se stesso, il gusto della narrazione, grazie alla quale veniva naturale abbandonare orologi e telefoni cellulari da qualche parte, per dimenticarsene volutamente e poi ritrovarli meravigliati di essere stati così tanto assenti, assorbiti, come solo una volta – quando i cellulari non c’erano – si poteva essere. E con Luca era sempre tutto tempo guadagnato, si aveva sempre l’impressione di portare a casa qualcosa, spesso un regalo in forma di narrazione.

Mi manchi Luca e se manchi a me, che pure sono passato di sfuggita nella tua vita, non oso pensare a quanto manchi a persone con le quali hai condiviso di più. Un abbraccio, a te che hai promesso l’ultima volta – te lo ricordi? – che saresti andato solo dietro l’angolo, forse memore di quel Pessoa che diceva: «La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto».

 

 

Il sogno americano (statunitense)

Oggi sono andato a fare un salto a casa dei miei. Ero un po’ in ritardo sui tempi e quindi, in auto, ho preso l’autostrada. Su spotify (ah, tutta la musica a portata di dita…) avevo su un grande classico della musica statunitense: Born in the USA di Bruce Springsteen di cui amo – come sonorità e tono di voce del cantore della working class statunitense – una canzone in particolare, Downbound train (di cui trovo molto bello questo live del 2013 a Londra). Più che essere un sogno, almeno dal testo della canzone, quello americano sembra un incubo, così come lo è il molto più recente film – sempre su una delle tante realtà USA – Nomadland, ma tant’è.

Riflettevo sul fatto che il sogno statunitense alla fine forse è tutto sommato “economico” per chi lo vive: avere la possibilità/libertà – ancora una volta? ancora una volta… – di correre con la propria auto su una autostrada deserta, che se fosse una highway forse sarebbe anche meglio. Chi mi conosce sa che ho un rapporto piuttosto conflittuale con quel paese, fonte di molti mali, ma anche capace di grandi “sfaccettature”, molto diverso dalla classe politica che lo governa (anche se questo è vero praticamente per ogni luogo del mondo, credo). A chi ne gode, alla fine, il sogno costa poco: qualche litro di – sempre più costoso – carburante (nel mio caso gasolio), un’auto in ordine, le condizioni stradali ottimali e si ha l’illusione di arrivare ovunque nel tempo di una canzone o poco più. Chi invece il sogno lo “paga” e lo subisce, sa che tutto questo costa molto di più, in termini di distruzione e di accaparramento delle fonti energetiche, con tutto quello che questo sta a significare. Ma di questo ho discusso a lungo, altrove.

Al ritorno un’altra canzone che ha fatto la storia della mia adolescenza è andata su “in automatico”: Tunnel of love dei Dire Straits, un altro grandissimo classico per me. E qui, davvero, in certi momenti, la suggestione è invece che l’intera vita possa trascorrere sulle note di una singola canzone, pur lunga, come questa.

Certe cose si ha l’illusione di afferrarle non con l’intelletto, ma con le orecchie, ascoltando canzoni…

Generale Lee, l'auto del telefilm "Bo & Luke"

Il “Generale Lee”, ovvero una Dodge Charger R/T l’auto del telefilm “Bo & Luke” (copyright immagine: CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=756140)

 

When we were kings, quando eravamo re

La recente ripubblicazione del reportage di Norman Mailer (The fight, La nave di Teseo, 2022) sullo storico – o forse dovremmo dire epico – incontro di boxe tra Gorge Foreman, imbattuto campione del mondo dei massimi, e Muhammad Ali, sfidante dalla parlantina veloce almeno quanto il gioco di gambe, riporta alla mente un’altra meritoria iniziativa editoriale di Einaudi: un cofanetto che conteneva un libro e una videocassetta dal titolo, appunto, Quando eravamo re (pubblicato nel 2000).

copertina del libro "The fight"

“The fight” di Norman Mailer

Nella cronologia accelerata cui la tecnologia ci ha sottoposto, la videocassetta tradisce la collocazione storica dell’iniziativa e testimonia quanto è stata importante nella cultura popolare la boxe in quegli anni. Se infatti lo storico incontro di Kinshasa è avvenuto nel 1974, non possiamo dimenticare che il primo Rocky è andato nelle sale cinematografiche nel 1976, attingendo a piene mani da quel mondo – basti ricordare che la tecnica del trash-talking, ovvero del denigrare pubblicamente l’avversario, così messa bene a punto da Ali nella realtà proprio contro Foreman (ma anche contro altri prima di lui), è stata mutuata di peso da quel primo terribile avversario di Rocky Balboa, Apollo Creed.

Parliamo di un’epica del pugilato cui senz’altro hanno contribuito penne come quella di Mailer che, nel suo reportage di cronista sportivo e pugile dilettante, ma con un retroterra da scrittore vero, mescola sapientemente la cronaca di quella sua trasferta nella magia dell’Africa nera – non infrequenti nel reportage le digressioni su quel mondo: dalla filosofia bantu a quanto il sovrannaturale sembri dominare, almeno come suggestione, tangibilmente ciò che accade – e la scansione degli eventi. Perché davvero, a un certo punto, sembra accadano delle magie: un Ali che sembra fuori forma, che sembra capace solo di dar fiato alle trombe, in modi che arrivano a essere petulanti e fastidiosi, si contrappone alla figura irraggiungibile di Foreman, il campione, “tutto ventagli e silenzi” (direbbe Paolo Conte, in un’altra suggestione, con parole destinati ad altri miti, sempre coloured e, curiosamente, con un immaginifico riferimento alla boxe – la citazione per intero è: “Ecco Duke Ellington, grande boxeur, tutto ventagli e silenzi…”), il campione che usa il silenzio e la concentrazione come forma di autocontrollo per tenere a bada il suo cuore di tenebra con cui, se gli desse sfogo, sarebbe capace di uccidere il proprio avversario. Un campione che non parla ma che, a beneficio di giornalisti e reporter, in una sessione di allenamento al sacco, dice Mailer, tira non meno di 600 pugni che arrivano come treni, spostando saccone e allenatore. Perché in quella follia psico-fisica cui bisogna giungere prima di un incontro a quei livelli conta non solo la forza, ma la resistenza, perché non si sa come andrà l’incontro. Se l’avversario è un osso duro bisogna arrivare in fondo, alle 15 riprese (solo un anno dopo, nel terzo incontro con Joe Frazier, The Thrilla in Manila, i contendenti saggeranno la resistenza di quella maratona, in uno dei match più cruenti che la storia della boxe abbia avuto: Ali avrà la meglio ai punti, per il ritiro di Frazier all’ultimo round, ma confesserà che se non lo avesse fatto Frazier, si sarebbe ritirato lui perché pensava seriamente che sarebbe morto) e allora la resistenza del maratoneta conta sopra ogni cosa, così come conta lo stato di grazia mentale, conta “la testa” e ciò che la testa dice di fare al corpo, in una comunicazione continua tra la neocorteccia della razionalità e gli strati più profondi, rettiliani, che sentono l’odore del pericolo, della morte e vogliono sfuggirgli con tutti i mezzi possibili.

Così Ali, nonostante queste premesse non proprio a suo favore, compie il miracolo. Con grande senso tattico cambia la tecnica annunciata e anziché danzare – come ha dichiarato fino a cinque minuti prima negli spogliatoi (“andiamo a ballare!”) e ha mostrato sul ring, facendo esercizi di gambe e saltelli continui come fossero una dichiarazione di quel “Pungi come un’ape, vola come una farfalla” – si fa presto mettere alle corde da Foreman. Fa, insomma, una cosa che nessun pugile dotato di buon senso farebbe, perché essere alle corde, confinarcisi volontariamente, significa diventare quel saccone a cui Foreman dava i suoi 600 pugni, sebbene anche la parola “pugno” non renda l’idea, tanto che lo stesso Mailer parla più propriamente di “mazze” e “clave”. Ali assorbe, ma appena c’è uno spiraglio, anche se ha deciso di non volare come una farfalla, il pungiglione dell’ape si fa sentire, centrando spesso il volto di Foreman. C’è poi un codice non scritto che fa parte delle regole base del pugilato e consiste in questo: se si è destrimani il destro, il diretto destro, si usa solo quando si capisce cosa fa l’avversario, solo quando si è sicuri di sapere che il colpo andrà a segno, perché la posizione della boxe con cui si affronta l’avversario (la “guardia”) fa sì che il braccio più avanzato sia il sinistro. Usare il destro significa spingere con la gamba più arretrata (la destra) ed effettuare una torsione in avanti con busto per portare il colpo, esponendosi a propria volta all’attacco dell’altro che, se riesce a schivare il colpo, potrebbe fare molto male. Ali contravviene sin da subito a questa regola e, prima dello scadere del primo minuto del primo round, centra con un destro secco un Foreman che, oltre a rimanere stordito dal colpo, all’inizio sembra esserne del tutto sorpreso. Nessuno gli aveva mai fatto una cosa del genere, nessun rivale, negli oltre 40 incontri disputati fino ad allora, aveva “osato” tanto.

Non andremo oltre nella cronaca dell’incontro che si può gustosamente leggere in questo libro, così come, grazie a quello scrigno che è YouTube, si può rivedere l’incontro a Kinshasa (all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=55AasOJZzDE). Sta di fatto che Ali compie quella specie di miracolo cui accennavamo: sul ring si invertono le parti e Ali che sembrava fuori forma mostra una resistenza incredibile, boxando meglio dell’avversario sulla distanza; Foreman invece sembra stancarsi senza appello, sembra a un certo punto andare in riserva di energie, fino ad arrivare al ko dell’ottava ripresa.

Il mondo tifava Ali perché Ali, lo sappiamo, era un personaggio capace di far discutere di sé: aveva voluto l’incontro in Africa – “terra delle origini”, ancorché in quello Zaire governato dal discutibile Mobutu – era stato renitente alla leva, con quella lapidaria (e leggendaria) frase con la quale si rifiutò di partire per il Vietnam («Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato “negro”») che gli costò il titolo mondiale, vinto a 22 anni contro quel rullo compressore che era Sonny Liston, un altro pugile che faceva paura – e al giovane Ali, ancora Cassius Clay all’epoca, ne aveva fatta.

Insomma siamo di fronte a storie quasi “mitologiche”, lontane dalla modernità in cui, in almeno un caso, un pugile arrivò, nel lontano 1997 a “masticare” l’orecchio dell’avversario (Tyson vs. Holyfield).

Rientri poco intelligenti

Capita di essere “poco intelligenti” (uh, l’intelligenza che parola! Da quando la tecnologia e il corrispondente anglismo smart sono entrati nella nostra vita, mi pare di essere diventato ancora più stupido…), soprattutto quando ci si mette in auto quando tutto il mondo si mette in auto. L’abbiamo fatto ieri, di ritorno da Catania: bollino rosso, l’avevano detto, strade intasate ovunque e non abbiamo saputo fare di meglio. L’unica cosa un po’ meglio che abbiamo fatto è stata partire presto: alle 5,30 eravamo già in auto e alle 7 sopra il traghetto che ci riportava “in continente”, ma non è stato sufficiente e siamo comunque caduti nella trappola della A1, con migliaia di auto e autogrill presi d’assalto (ah, la “sostenibilità”, che chimera!)…

Ci sono due immagini che mostrano la sottile ma fondamentale differenza tra “paradiso” e “inferno” e su come facilmente uno si possa trasformare nell’altro. Magari le immagini le conoscete, ma vale la pena descriverle nuovamente. In una si mostra un banchetto con ogni ben di Dio da mangiare, ma i commensali si dannano perché le posate, con cui è in qualche modo obbligatorio mangiare, hanno manici spropositatamente lunghi, così che è praticamente impossibile portarsi il cibo alla bocca: coltelli, forchette e cucchiai sono lunghissimi e se si tenta di rivolgerli verso di sé non se ne cava nulla. Un vero inferno insomma, dove il supplizio consiste nell’essere di fronte a tutta questa cornucopia di cibo ma non poterne godere. L’altra immagine è il paradiso e la scena si ripete identica, solo che anziché tentare ognuno di imboccare se stesso, con posate così lunghe si vedono i commensali imboccare gli altri commensali: questo perché con le stoviglie così fatte si raggiungono molto più facilmente le bocche altrui e diventa molto più facile soddisfare i reciproci bisogni, i reciproci gusti, eccetera.

Questa parentesi per dire che l’inferno siamo noi e sono gli altri. Nella fattispecie sono coloro che non vedono al di là del proprio naso, che tentano di “imboccare se stessi” a ogni costo e sembrano autistici, che degli altri che hanno intorno – delle migliaia di altri che hanno intorno, su un’autostrada… – se ne fregano. Così accadono le solite “scenette” dettate dall’esasperazione, con gente che sorpassa a destra (l’ho fatto anch’io? Sì su oltre mille km di strada l’ho fatto anch’io un paio di volte) perché chi sta in corsia di sorpasso ci “campeggia” a velocità che sarebbero da corsia di destra, con il risultato che le corsie di destra sono semivuote e tutti intasano quella di sorpasso senza sorpassare. Oppure accade che ci si debba fermare per una sosta pipì e rifornimento. L’autogrill preso, come gli altri, d’assalto. Auto ovunque, code ovunque, anche per il rifornimento. Ci si mette pazientemente in attesa, in fila dove la pensilina del distributore è configurata, come quasi tutti i distributori del patrio suolo, con due pompe affiancate l’una all’altra, su ogni lato. Davanti a me una 500 XL, uno di quegli orribili obbrobri che girano sulle nostre strade, insultando il buon nome di quella 500 di tanti anni fa che rivoluzionò la mobilità del nostro Paese. Talmente ipertrofica che nonostante io abbia una Golf, non riesco a vedere oltre. Sporgendomi dal finestrino però vedo le due pompe allineate e vedo anche che il proprietario si ferma alla prima che incontra, lasciandomi fermo fuori dalla pensilina. Gli chiedo se può andare a quella dopo, ma sembra non capire. Poi mi dice che a quella davanti a lui c’era ancora qualcuno (che però stava finendo). Uno dei ragazzi che lavora freneticamente al distributore e gli toccano pure le mansioni del vigile urbano a un certo punto (pochissimo dopo questa conversazione) infatti mi fa cenno di andare avanti, così infilo la prima, “soprasso” la 500 e mi piazzo sulla pompa libera. Riesco a fare rifornimento e a pagare che loro sono ancora lì e mi chiedo: perché? Perché non si riesce a guardare oltre il proprio naso? Perché se hai finito di sorpassare o se a una velocità tale da stare in corsia di destra non ci vai e liberi spazio per chi ha un’andatura più sostenuta? Non si capisce, se non spiegandoselo con un egoismo al massimo grado, perché stiamo parlando di fare tutti insieme una cosa (“essere su un’autostrada per tornare a casa”) e di rendere, ognuno per la sua parte, il viaggio più confortevole e sicuro per tutti senza esasperare gli animi. E invece se si può far peggio lo si fa, senza riguardo per gli altri.

Fine della lamentazione e inizio di quelle piccole soddisfazioni spicciole che consistono nel sentire ancora una volta di aver fatto un acquisto azzeccato. Da meno di un anno infatti ho sostituito la mia vecchia BMW con una VW Golf 7 con cambio DSG (dopo 34 anni di patente sono stufo di cambiare: questi cambi automatici sono ormai raffinatissimi e fanno meglio di qualunque essere umano…). Questo è stato il primo vero “test”: quasi 4mila km in 18 giorni, spesso con temperature elevate ed elevatissime (scendendo verso sud il 4 agosto all’altezza di Orvieto il termometro segnava 40°), su strade non sempre “buone” (il giro Bagheria, Gibellina, Selinunte ha messo a dura prova gli ammortizzatori…). Nonostante le temperature, il traffico, le strade e tutte le variabili del caso, ho tenuto una media dei 18,6 km/l, di cui non mi lamento (e chi mi conosce sa anche che tendenzialmente non vado piano…). Non male.

Leben (und Erleben… und Tod)

Del tedesco – che pure dilettantescamente studiai in anni passati, affascinato da questo trasloco culturale della filosofia che, dopo aver parlato greco (antico) di fatto si trasferì in Germania (insieme alla fisica…) – non ricordo praticamente nulla, salve qualche folgorante assonanza di termini, di etimi, come quello del titolo. Leben è “vita” ed Erleben (che sembra contenere la stessa parola nel suo interno) è esperienza.

Di fatto quindi non si dà vita senza che vi sia esperienza che la sostanzi (senza che vi sia un “esperire”, in quella accezione peculiare che anche nella nostra lingua ha il termine) così come è possibile dare una lettura dell’equazione in senso contrario: senza (fare) esperienza (/esperire) non c’è vita.

Forse la più alta vetta poetica di questo concetto la si ritrova in un celebre brano di (guarda caso, un tedesco!) Rainer Maria Rilke, e in particolare nel celebrissimo «I quaderni di Malte Laurids Brigge». Rilke fa scrivere al suo alter ego una riflessione sul fare poesia, che è poi una riflessione sulla vita:

Bisognerebbe saper attendere e raccogliere, per una vita intera e possibilmente lunga, senso e dolcezza, e poi, proprio alla fine, si potrebbero forse scrivere dieci righe valide. Perché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si acquistano precocemente), sono esperienze. Per scrivere un verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna capire il volo degli uccelli e comprendere il gesto con cui i piccoli fiori si schiudono al mattino. Bisogna saper ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e congedi previsti da tempo, a giorni dell’infanzia ancora indecifrati, ai genitori che eravamo costretti a ferire quando ci porgevano una gioia e non la comprendevamo (era una gioia per qualcun altro), a malattie infantili che cominciavano in modo così strano con tante profonde e gravi trasformazioni, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al mare soprattutto, ai mari, a notti di viaggio che passavano alte rumoreggianti e volavano assieme alle stelle, e non basta ancora poter pensare a tutto questo. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche accanto ai moribondi bisogna esser stati, bisogna essere rimasti vicino ai morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori a folate. E ancora avere ricordi non basta. Bisogna saperli dimenticare, quando sono troppi, e avere la grande pazienza d’attendere che ritornino. Perché i ricordi in sé ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, anonimi e non più distinguibili da noi stessi, solo allora può darsi che in una rarissima ora si levi dal loro centro e sgorghi la prima parola di un verso.

Sono parole formidabili, che, a proposito di ricordi, io ho dimenticato (ma poi, come si vede me ne sono ricordato), ma che forse dovremmo trascrivere su un pezzo di carta e mettercele, che ne so, dentro il portafoglio, in mezzo alle banconote, come antidoto alle banconote stesse, usate per lo più per acquistare oggetti (quindi, come dice saggiamente una mia giovane cognata: “meno oggetti e più esperienze”).

Ma c’è una cosa curiosa che riguarda la mia famiglia – perché queste parole che ho cercato e ritrovato sono riaffiorate alla mia memoria nei giorni scorsi durante l’ultima visita ospedaliera a una mia zia, novantunenne, sorella più anziana di mio padre. Una cosa curiosa che riguarda proprio queste esperienze («Ma anche accanto ai moribondi bisogna esser stati, bisogna essere rimasti vicino ai morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori a folate») che la mia famiglia – nella fattispecie nella figura di mio padre, suo fratello – non vuole e non ha voluto fare, dicendo che preferiva ricordare la sorella com’era nei giorni prima del ricovero quando, ancora lucida, era a casa (il ricovero è avvenuto per un attacco ischemico). Comprensibile e forse anche condivisibile: ognuno a certi eventi luttuosi reagisce come sa e come può.

L’ultima parola che in tedesco sta in questo titolo è infatti “morte” e sta in contrapposizione alla “vita” e al suo “fare esperienza”. Mia zia è morta questa mattina presto. Una morte “annunciata” ieri dal collasso di alcuni organi che hanno smesso di funzionare. Non so se la mia scelta di andarla a trovare in ospedale un’ultima volta – che si contrappone a quella di mio padre – vada nella direzione della vita, del fare esperienza nel senso descritto da Rilke, ma la visione di questa donna con la quale non credo di essere riuscito a comunicare (io con la mascherina FFP2, lei con la mascherina dell’ossigeno, in uno stato di coscienza non chiaro) non mi ha sottratto nulla, anzi.

L’esserci guardati ancora per qualche momento negli occhi (avrà capito? sapeva dov’era? sapeva chi ero?), percepire il suo battito cardiaco accelerato credo sia stato importante per me; non so dire se di conforto, pur minimo, per lei. So che provava affetto nei miei confronti, io che porto il nome di suo padre. Poi c’è questo particolare, il particolare di un tempo che fu. Antico, che mi riporta al mio essere bambino. Mia zia è di quella generazione di donne (e prima di lei, sua madre, mia nonna) che usava portare i capelli lunghissimi. E se dico lunghissimi, intendo proprio lunghissimi, ma che ovviamente nessuno di noi ha mai visto sciolti, perché in pubblico vigeva – ed è sempre stata in auge – la “crocchia”, o chignon. Ho il vago ricordo – talmente vago che non so dire se fosse mia zia o mia nonna! – di bambino, di una volta che assistetti, per puro caso, a un lavaggio di chioma che fu, si può immaginare, piuttosto impegnativo. Ero impressionato da quella massa così lunga e voluminosa che, una volta attorcigliata, non sembrava affatto potesse nascondere una tale cascata di capelli.

Ecco, nel trambusto ospedaliero, nell’urgenza del momento, nelle cure che pure si devono e si danno a persone nella sua condizione, lo chignon aveva perso la sua forma e i capelli stavano poggiati sul cuscino, sciolti, su un lato, mitigando quella specie di austerità che la regola sociale imponeva, lasciando così trasparire una fragilità, una sorta di “nudità”, nell’abbandono che tutti abbiamo di fronte alla morte, quando arriva il nostro momento.

 

La conoscenza ridotta a opinione

Il titolo di questo post è di fatto il sottotitolo di un libro, curato da Marco Ferrazzoli e Francesca Dragotto, cui ho avuto il piacere e l’onore di partecipare con un capitoletto. Il titolo del libro, per completezza d’informazione, è “Parola di scienziato” e si trova (ancora) qui. Si tratta di un libro che avrebbe dovuto avere, secondo il mio modestissimo parere, maggiore diffusione perché l’argomento, da quando è stata teorizzata la scienza “post-accademica” esattamente vent’anni fa (almeno in Italia) da Pietro Greco (trovate il suo contributo liberamente scaricabile dalla rivista JCOM a questo indirizzo – anzi, se cliccate, vi ritrovate il PDF direttamente sul vostro computer…), è ciclicamente all’ordine del giorno: in un mondo in cui tutti sembrano essere esperti di tutto, in cui c’è un livellamento orizzontare dell’informazione che mescola verità dimostrate a mezze verità a illazioni a fake news e a quello che altro vi pare, è sempre più difficile entrare nell’agone della corretta informazione soprattutto sembra sempre più difficile riconoscere i diversi ruoli che gli attori dovrebbero avere su questioni delicate che riguardano tutti noi.

Dimostrazione ultima, in ordine di tempo, di questa “riduzione a opinione” della scienza è l’episodio avvenuto nella puntata del 7 giugno scorso della trasmissione “Cartabianca”, condotta da Bianca Berlinguer (e visibile ancora su RaiPlay, se si ha un account, a questo indirizzo) nel cui palinsesto, negli ultimi venti minuti, sono stati ospiti del “salotto” Luca Mercalli, Elisa Isoardi (in studio), Francesco Borgonovo e Matteo Bassetti. A parte la conduttrice quindi si trattava di una parità: due scienziati (Mercalli e Bassetti) e due giornalisti (Isoardi e Borgonovo).

Penoso e lungo il racconto della dinamica con cui si sono svolti i fatti, ma deprimente constatare che questa segue sempre lo stesso schema: Borgonovo, giornalista privo di ogni nozione metereologica o/e climatica esordisce con il più trito dei luoghi comuni (“Ma qui a Trento, dove sono io, fa fresco”), come se la constatazione puntuale di un momento arbitrario potesse applicarsi a una qualche teoria secondo cui si può andare (impunemente) dal particolare all’universale. Continua quindi con incipit in cui afferma di “non essere competente in materia MA” bla bla bla, anche qui secondo uno schema già visto e un non sequitur per cui, secondo logica, se “non sei competente in materia” ciò che dovrebbe seguirne è che PRIMA ti informi e POI parli.

Ora: è facile individuare i punti sensibili di Luca Mercalli e, per estensione, quelli di chi cerca di parlare con cognizione di causa di argomenti sui quali si gioca il nostro futuro. Elenco per brevità quelli visti in trasmissione:

  • sforzarsi di fare dei ragionamenti compiuti ed efficaci che condensano anni di studio, pensiero, letture in una manciata di minuti e ad usum Delphini e, mentre si compie questo sforzo, essere interrotti dalla conduttrice che interviene su una questione “tecnica” dicendo a Luca che dovrebbe guardare più in basso nella telecamera. Forse della telecamera – mentre questo signore sta dicendo una cosa importante e si dovrebbe prestrare attenzione – non ce ne frega una beata mazza, ma questo diventa (volontariamente? involontariamente?) un modo come un altro per vanificare il messaggio: interrompere l’interlocutore per dire tutt’altro;
  • Borgonovo, che invece conosce bene le tecniche di lotta televisive e non gliene frega proprio niente delle ragioni degli altri, mette in piedi uno schema classico: quando ha la parola – che educatamente Luca NON gli toglie e non interviene mentre questo, che dice una marea di scempiaggini, le sta dicendo – compie un attacco frontale cercando di minare la credibilità altrui con epiteti quali “catastrofista” ecc. Però, siccome è un povero ignorante, non entra mai nel merito. Quando Luca replica alle sue punzecchiature (“anche l’IPCC è contestato” – che è una frase che non significa nulla) dimostrando che, anche da un punto di vista logico, gli mancano le basi, questo comincia il giochino snervante del “dare sulla voce” all’interlocutore, impedendogli, di fatto, di parlare.

Ammiro moltissimo, ma l’ho anche già scritto, chi riesce a esporsi pubblicamente perché le trappole sono sempre in agguato. Io non ce la farei perché la condizione sine qua non per un dibattito su posizioni che possono anche essere differenti è il fair play, è il “giocare corretto”, mentre questi furbacchioni – messi lì apposta come “arma di distrazione di massa” (la vecchia teoria dell’uomo di paglia…) – appena scatta il gong e la regola del pugilato televisivo imporrebbe di non colpire sotto la cintura, la prima cosa che fanno è darti un calcio nelle palle. E se fai così allora smetto di giocare, esattamente come ha fatto Luca, andandosene dal “dibattito”. Anche questo atto estremo però purtroppo viene percepito non come dissenso da regole che non si condividono, ma come una forma di “debolezza”: te ne vai perché non hai il coraggio di (o meglio: non sai e non vuoi) giocare al loro gioco che è diverso dal tuo, semplicemente perché le regole sono diverse.

Insomma: Luca Mercalli è stato fin troppo paziente, ha ascoltato tutte le scemenze che avrà ascoltato migliaia di volte, e poi di fronte all’ennesimo dar sulla voce, ha deciso sacrosantamente di andarsene, lasciando tutti lì come dei fessi, quali per altro hanno dimostrato di essere. Salvo il fatto che, a ulteriore dimostrazione della propria idiozia, Borgonovo si è permesso di rincarare la dose e metterla in burletta: “Mercalli si è surriscaldato”. Complimenti, l’atteggiamento degno di un bullo e l’ennesima dimostrazione che la conoscenza è ridotta a opinione, una tra le tante e che sembra avere valore come una tra le tante. Veramente una gran tristezza.

Il problema è politico

emissioni di gas "bruciate"

Emissioni di gas “bruciate” (flaring): meglio che lasciare il metano incombusto, ma comunque bruciandolo si genera CO2…

Avviso ai naviganti: l’affermazione che fa da titolo a questo post non ha in sé nulla di nuovo e probabilmente neppure quel che segue ha in sé il carattere della novità, ma credo che un “ripasso” possa sempre venir utile. Fine dell’avviso.

E’ successo di nuovo e succede continuamente: le affermazioni della classe politica sono – in una percentuale che non so quantificare, ma che si avvicina senz’altro al 100% – o mendaci o fallaci o inesatte, nel migliore dei casi.

Ieri sera a TG2 Post, la rubrica dopo il TG delle 20,30 sul secondo canale, la conduttrice Manuela Moreno incalza il Senatore della Repubblica Davide Faraone di Italia Viva, ospite nella trasmissione, sulla questione energetica e lo fa mettendolo all’angolo su una questione legata alle politiche “sull’indipendenza” dal gas russo (tormentone che non accenna a diminuire d’intensità – ma l’informazione va ormai per tormentoni, mi pare) per una affermazione fatta dal suo “capo” Matteo Renzi, all’epoca in cui è stato Presidente del Consiglio. Colto un po’ alla sprovvista, Faraone cita lo “Sblocca Italia”, decreto discussissimo già a suo tempo, sul quale ho pubblicato un libro, questo. Le argomentazioni sono sempre le stesse e sono sempre fallaci: abbiamo del gas sotto di noi e dovremmo estrarlo, peccato che il senatore non sappia QUANTO ce n’è di gas, ma noi sì. E chi ha un po’ di buon senso sa che è privo di senso estrarlo per un certo numero di motivi (che sono sempre gli stessi). Elenco, a beneficio del lettore, i principali:

  1. Motivazione “sentimentale”: basta col gas! Ma non dovremmo fare la transizione energetica (che è anche ecologica)? Cosa stiamo ancora aspettando?
  2. Motivazione tecnica: ce n’è troppo poco. Luca Pardi, collega CNR, ex presidente di ASPO Italia, in tempi non sospetti, nel 2015, lo aveva detto a chiare lettere da invitato alla trasmissione televisiva Ambiente Italia della RAI (qui il video). La risposta che diede in trasmissione, in relazione all’abbondanza delle riserve di idrocarburi italiani (“Dire che in Italia abbiamo abbondanza di idrocarburi, petrolio e gas, è come dire che l’Italia è il Paese degli elefanti perché ce ne sono due allo zoo di Pistoia e qualcun altro sparso nei circhi: non è così, è una frottola”), costituisce la genesi del titolo del libriccino che scrisse e che gli pubblicai, questo. Inoltre, praticamente in contemporanea alla scrittura di questo pezzo, veniva pubblicato sul blog di ASPO Italia questo post (sempre a firma Pardi e un altro autorevole membro di ASPO, un geologo minerario specializzato in esplorazione petrolifera con 34 anni di esperienza, Gisberto Liverani. Lo trovate qui).
  3. Motivazione scientifica: il gas è dannoso all’ambiente. Una molecola di metano, benché abbia un ciclo di vita in atmosfera più corto di circa 1/5 rispetto a una molecola di biossido di carbonio (meglio nota come anidride carbonica), ha un effetto climalterante (GWP – Global Warming Potential) di circa 70 volte maggiore (in un intervallo di vent’anni dalla sua emissione in atmosfera) e di 25 volte maggiore (se calcolato su un intervallo di un secolo – il dato me lo ricordavo a memoria, ma l’ho comunque verificato qui), sempre rispetto all’anidride carbonica. Come ha raccontato la trasmissione Report del 4 aprile (due giorni fa, non un secolo fa), praticamente TUTTI gli impianti che hanno a che fare col gas (dai rigassificatori, di cui tanto si parla, a tutti gli altri), hanno delle perdite (quelle che tecnicamente si chiamano emissioni fuggitive) – cito qui quel che Sigfrido Ranucci ha detto in trasmissione: «L’Ong Clean Air Task Force ha visitato 250 impianti in Europa e ha rilevato che ben 180 hanno emissioni di metano [stiamo parlando del 72% degli impianti, ndr]. 35 impianti in Italia, invece, su 46 [ovvero il 76%, ndr]. Ecco invece l’agenzia per l’energia dell’OCSE ha stimato che in tutto il mondo viene rilasciato metano dal settore che produce energia corrispondente a due volte e mezzo il fabbisogno in Italia» (grassetto mio, ovviamente).
  4. Motivazione “patrimoniale”: Venezia sprofonda: il fenomeno della subsidenza è noto, tanto che il sito dello stesso comune di Venezia ne parla, qui. Il fenomeno, «cioè lo sprofondamento del suolo per cause naturali e antropiche» è contemplato possa avere cause antropiche che però quasi nessuno cita esplicitamente. E quali sono queste cause? Tipicamente estrarre da un sottosuolo già naturalmente sensibile, per conformazione, a questo fenomeno, ciò che in qualche modo limita la portata del fenomeno stesso: il gas (o magari l’acqua, come dice al punto 7 questo articolo parlando dell’effetto Marghera – siamo sempre a Venezia…) che riempie quello che altrimenti sarebbe, una volta estratto, un vuoto, capace di compattare ulteriormente il terreno, aggravando quindi il fenomeno.

E’ abbastanza per dire basta alle fonti fossili e “all’innocuo” metano? Ora: io non ce l’ho con il Senatore Faraone che, per il solo fatto di essere siciliano mi fa simpatia, ma visto che (cito da questo sito) «i senatori […] ricevono un’indennità mensile lorda di 11.555 euro. Al netto la cifra è di 5.304,89 euro, più una diaria di 3.500 euro cui si aggiungono un rimborso per le spese di mandato pari a 4.180 euro e 1.650 euro al mese come rimborsi forfettari tra telefoni e trasporti. Facendo un rapido calcolo e senza considerare le eventuali indennità di funzione i componenti del Senato guadagnano ogni mese 14.634,89 euro contro i 13.971,35 euro percepiti dai deputati» (vale a dire un’ordine di grandezza in più rispetto allo stipendio di gran parte dei nostri concittadini), mi aspetterei che magari, prima di andare in tv, Faraone si preparasse un minimo, che ne so, assoldando qualcuno che lo istruisca su come stanno le cose nello specifico di certi argomenti che, pur trattandosi di tv “generalista”, magari vengono fuori, visto che sono temi caldi. E invece? Invece (1) di fronte a quelli che nulla sanno sembra che questi dicano anche cose sensate e (2) di fronte a coloro che hanno un minimo di infarinatura su questi argomenti, fanno mediamente la figura dei pirla.

Quindi sì: il problema, come detto anche altrove, è politico. Chiudo: alcune delle persone che conosco mi dicono, “ma perché, te guardi TG2 Post?”, con il sorrisetto ironico di chi la sa lunga. Sì guardo TG2 Post perché (1) “è quello che passa il convento” a quell’ora e (2) proprio perché è quello che passa il convento, sono convinto che molti miei concittadini lo guardino, magari distrattamente e magari orecchiando ma, immaginando che abbiano vite complicate, a quello si sono ridotti perché non hanno il tempo o voglia o la forza di farsi opinioni altrove. E proprio perché sono questi nostri (con)cittadini a compiere delle scelte (o almeno: così dovrebbe essere in democrazia), avrebbero quanto meno il diritto di essere ben informati. Ma per esserlo bisognerebbe che i primi a dover essere meglio informati siano i politici che, interrogati, spesso sparano risposte a vanvera, parlano alla “pancia” delle persone, ignorando molti dei problemi che stanno alla base delle loro imbarazzanti affermazioni.

Stare in giro

1. Garfagnana e Lunigiana (sabato)

Ecco, a volte il semplice “stare in giro”, “essere in giro” è fonte di una specie di felicità primordiale. Ieri, sabato, avevo il pomeriggio libero e, dopo mesi di rinunce e di pigrizie – nonostante il bel tempo – mi sono deciso a tirare fuori di nuovo il mio Honda Forza 750, acquistato lo scorso anno a gennaio.

Mi sono avventurato per strade note, sul limitare dei (quasi) 11mila km e… con le gomme definitivamente da cambiare (soprattutto l’anteriore…), imboccando, dopo qualche curva di riscaldamento, la valle Serchio, in direzione Castelnuovo Garfagnana. Ho (ri)fatto una strada fatta anni addietro e poi ripercorsa in anni più recenti. Posti che evocano la mia gioventù (siamo “dietro” le Alpi Apuane) un entroterra dove il tempo sembra comunque scorrere a una velocità diversa e senz’altro più lenta.

E comunque a “inizio stagione” è sempre un po’ così: mi sento rigido in sella; al mezzo, di cui razionalmente mi fido, non mi affido e tendo ad andare in “levare” (mollando il gas) anziché in “battere” (cioè dando gas), tranne… quando sul rettifilo con un paio di curvoni larghi, nel pezzo che raccorda la fine della discesa della statale 12, verso Lucca, uno con una “motona” (Ducati? Dal rumore sembrava, ma non ricordo…) non mi supera a tutta birra. Allora mi dico: “se lo può fare lui, lo posso fare pure io” (perché in quel pezzo, come in molti altri, delle nostre patrie strade, non conta mai fino in fondo la cavalleria, ma il manico…). Insomma: un piccolo test per capire se ci sono, se il mezzo c’è, se ci siamo ancora. Sì, ci siamo ancora. Il ragazzo esagera, usa male il gas ed è costretto a frenare (quei curvoni, proprio perché veloci, vanno impostati bene, altrimenti in un attimo sei nell’altra corsia o contro il guardrail…) , mentre io no e quindi, come dicono i cronisti, sugli ultimi tratti recupero e gli sto “francobollato”.

Poi però non è quello lo scopo, anzi: è proprio l’opposto ed è andare a passeggio. Così passeggio e vado ancora più piano da Castelnuovo in su (verso Minucciano, Piazza al Serchio), perché lì le strade si fanno più strette e gli asfalti più ruspanti. Infatti, nonostante la velocità ridotta, mi faccio un paio di numeri da circo equestre perché in un caso ho preso un sassetto – caduto dalla montagna franosa – sulla gomma davanti che ha scomposto il Forza e gli ha fatto cambiare traiettoria; in un altro, in piega, sento di nuovo l’avantreno (ripeto: complice la gomma finita) che va per i fatti suoi a causa di un asfalto fatto a gobbe e “oleoso”. Ma, a parte questi due episodi (che comunque si mettono in conto, soprattutto se non si esagera), uno spasso. Intanto tra Garfagnana e Lunigiana (nota per i suoi castelli), vi sono un certo numero di pievi (e non me lo ricordavo), a partire da quella il cui toponimo è indicato proprio dalla Pieve (San Lorenzo, a Minucciano), Piazza al Serchio (con la sua chiesa/Pieve di San Pietro) e i posti, semideserti, di questa “Italia interna” sono sempre un bel vedere.

Scendo su Aulla dove, non ho più nulla da raccontare se non il ponte di Albiano Magra, i cui lavori – forse sulla scia del più tragico Morandi – stanno procedendo (o almeno: sembra a vedere da qui): traffico, auto, Aurelia, un sabato pomeriggio come tanti. Qui di seguito la mappa Google del giro… (ah, per i più attenti alle statistiche: mi sono messo in sella alle 14,30 e sono rientrato alle 17,30 circa – ma non ho mai fatto soste. Nonostante la marcia “da passeggio” tra salite e discese, curve e controcurve il cambio doppia frizione DCT ha fatto le sue cambiate a regola d’arte e non ho avvertito stress di nessun tipo sul mezzo. La temperatura, devo dire, anche ideale e anzi: il consumo è passato dai 3,8 litri/100 km – 26,3 km/l – a… 3,7 = 27 km/l).

giro del 26 maro 2022

2. Intermezzo: indian experience

Per fare “qualcosa di diverso” ieri sera abbiamo ordinato dall’indiano con consegna a domicilio (ma NON Just Eat o altre follie della modernità – soprattutto quando, nella stessa giornata, proprio un giovane rider muore a Livorno in un incidente stradale: semplicemente sul sito e con consegna… che, abbiamo scoperto a nostre spese essere “random”). Mal ce ne incolse infatti: ordine sul sito alle 19,20 e consegna prevista dopo 45 minuti. Perfetto, ci siamo detti, pregustando risi e altre prelibatezze intingolate a sufficienza, ma… arrivano le 20,30, le 20,45, le 21 e nessuno bussa alla nostra porta. Ci attacchiamo al telefono: scopriamo che al cellulare messo sul sito risponde chi dovrebbe consegnare, ma la cui comprensione e produzione della nostra lingua è insufficiente per la modesta funzione da svolgere (che è: prendere le cose impacchettate, trasportarle all’indirizzo che supponiamo essere stato inserito correttamente, copia-incollato da nostro ordine online, su un navigatore disponibile su qualunque cellulare, raggiungere l’indirizzo, scampanellare, consegnare la mercanzia mangereccia, prendere i soldi e salutare). Ci chiede di chiamare sul fisso. Lo facciamo e, dopo qualche tentativo prendiamo la linea. La signora ci dice che il ragazzo forse ha avuto un problema allo scooter, adesso si informa e ci fa sapere. Ovviamente non ci fa sapere e quindi richiamiamo. Ci dice che è davanti casa nostra. Caspita! Siamo “fronte strada”, ce ne saremmo accorti. Mi catapulto fuori e la via è deserta. Neppure rumore di scooter in lontananza. Il giochino va avanti un po’ ma cominciamo a essere demoralizzati dalla fame. A un certo punto rifaccio il numero di cellulare, deciso a venire a capo della cosa. Il ragazzo mi risponde e mi dice, pure lui, che è davanti a casa mia e c’è un cane – che sento distintamente abbaiare nel suo telefono, ma non intorno a me. Che ci sia uno sfasamento nello spazio-tempo? Gli dico che non è di sicuro quello l’indirizzo: a casa mia non sta abbaiando nessun cane. La questione si fa seria! Piantono e presenzio la via in cui abito come ne fossi il proprietario: scruto a destra e a sinistra, i minuti passano. Sento il campanile di Oratoio battere le 21,30 ma, finalmente, qualche minuto dopo, si avvicina un rumore di scooter che procede a singhiozzi, tipico di chi va piano e cerca un indirizzo. La via in cui abito nel primo tratto è rettilinea, ma poi prosegue piegando a oltre 90 gradi: se si procede dritti si va in un’altra strada (ma questo il navigatore LO SA). Avendo intuito il soggetto e vedendolo transitare pur a bassa velocità dritto, mi sbraccio e urlo – facendomi riconoscere dal vicinato che sicuramente avrà spiato dalle finestre, cercando di capire chi era il pazzo che continuava a dire “Di qua! Per di qua! Sono qua!”, agitando le mani. La via, ripeto, era VUOTA e SILENZIOSA. Insomma, riesco a raggiungerlo. Lui finalmente capisce di essere “arrivato” e… sorride. Perché dagli indiani (e in generale dagli altri) abbiamo da imparare – soprattutto a relativizzare. Ne veniamo a capo, anche se i risi sono quasi freddi per tutto questo girare. Fa 22 euro (ma ci mangeremo anche stasera data l’abbondanza delle porzioni), lui insiste per 20, sconto “disagio”, io insisto per 22 perché “ragazzino imbranatino”, devi imparare magari a parlare la nostra lingua se vuoi stare qui, e a fare meglio questo mestiere infame dove si muore per consegnare. Prende i 22 e non smette di sorridere. Ridiamo anche noi una volta a casa. Mia moglie si è sbellicata sentendomi urlare per la strada – io che non alzo mai la voce. Prossima volta: razzi di segnalazione e giubbotto catarifrangente! Non ci resta che riderne. Finiamo di mangiare alle 22 passate…

3. Abbazia di San Galgano (domenica)

Ieri abbiamo tentato invano di prenotare qualche struttura da visitare col FAI, ma ci siamo mossi tardi: tutto sold out. Io però avevo voglia di stare ancora in giro, anche oggi. Perché non ci prendiamo la giornata e andiamo a vedere l’Abbazia di San Galgano, che da un sacco di tempo volevamo vedere? Facciamolo! Stamattina un po’ frastornati dal cambio dell’ora, ma contenti di giornate che saranno lunghissime per un po’, dalla finestra vediamo un tempo non proprio meraviglioso. L’indiano di ieri sera poi mi ha lasciato un mal di testa martellante: qualcuna delle salsine deve avermi dato noia, anche se ho digerito tutto. Partiamo comunque a un’ora decente: le 9 (che sarebbero le 8…), ma fuori ci sono 10 gradi. Di prendere il Forza, col mal di testa e con questa sensazione di freddo addosso, non ne ho voglia: andare su due ruote deve essere un piacere, non una tortura. Andiamo in auto. Non sono mai contento di usare l’auto, ma a volte non si può far diverso.

Strade spettacolari e ovviamente molto più da due ruote che da quattro, ma pazienza: me lo segno per momenti migliori (intanto come promemoria qui sotto di nuovo la cartina del giro che abbiamo fatto). Insomma la Toscana da cartolina di cui non ci stanchiamo mai. La struttura dell’abbazia è molto bella e l’assenza di copertura la rende ancora più magica. Ci ha ricordato l’ultimo viaggio che facemmo all’estero, prima dell’avvento della pandemia: Irlanda. La magia è in queste “aperture” (rosoni, bifore…) che hanno come sfondo il cielo – il contrario delle case “orbate”, rese cieche e senza finestre, ma il cui interno buio fa uscire solo oscurità, che così tanto abbiamo visto nelle immagini televisive della guerra in questi giorni. L’effetto qui, un po’ per la magia del posto, è invece proprio questa sensazione di leggerezza e di “comunicazione” con altro. Senza vene mistiche si ha come la percezione di essere comunque in un posto un po’ speciale. E dire che quel periodo storico, il Medioevo, lo chiamavano dei “secoli bui”… Se ci sono secoli meravigliosi sono stati quelli – ci hanno regalato Dante, Giotto e mille altri personaggi che hanno lasciato un’impronta indelebile nella nostra storia e cultura. Anche San Galgano arriva da lì!

giro del 27 marzo

Abbazia di San Galgano

Abbazia di San Galgano

Fuori dall'Abbazia

Fuori dall’Abbazia

Buon compleanno Beppe! Altri 100 di questi anni!

Beppe Fenoglio

Beppe Fenoglio, Alba, 1º marzo 1922 – Torino, 18 febbraio 1963

Confesso di avere avuto diverse passioni intellettuali (ma chi non ne ha avute?). Quando studiavo Filosofia mi sono innamorato, come tanti (non è stato un amore tanto originale…), di Ludwig Wittgenstein e della sua non banale biografia. Accadde così anche in ambito scientifico con Galileo, al punto che, da questa passione, vennero fuori conferenze (non ancora finite…) e pure un libro, questo.

In ambito letterario invece la passione fu (ed è! – i propri miti non si dimenticano mai, magari non li si “sente” per un po’, come accade con gli amici, ma fanno parte di noi…) per lo scrittore albese Beppe Fenoglio. Una passione che mi ha regalato momenti impagabili, che hanno fatto parte del mio vissuto e della mia storia personale. Ma soprattutto mi hanno regalato l’amicizia con Margherita, la figlia di Beppe e quella di Edoardo “Dodo” Borra, della Fondazione Ferrero, di Silvia Albesano, sua moglie, e ancora di Emanuela Rosio e di altri ancora. C’è stato un momento che Alba è stata per me una seconda casa. E lo è stata in momenti importanti della mia vita. E i momenti importanti, ça va sans dire, sono quelli in cui stiamo male e abbiamo bisogno di una parola amica.

Insomma, vent’anni fa mi sono messo sulle tracce di uno scrittore e ho trovato affetti e amicizie che ancora durano. Una bella sensazione e, alla fine, una questione privata, che mal si presta a un post pubblico. Pensate che l’affinità “sentimentale” (non letteraria) con la scrittura di Fenoglio è stata tale che Fenoglio “mi ha fatto incontrare” mia moglie, che proprio su Fenoglio fece la sua tesi di dottorato, questa. L’incontro fu propiziato da un comune amico, “fenogliano” pure lui, ma professionista, Luca Bufano.

Oggi ricorrono i 100 anni dalla nascita di Beppe, la cui fama si è giustamente accresciuta nel tempo. E allora non resta che farti tanti auguri Beppe: buon compleanno e che il ricordo di te resti impresso ancora a lungo tra noi posteri!

PS: a proposito: chi volesse approcciarsi alla vita di Fenoglio, alla sua biografia di piemontese schivo, può leggerne le lettere che proprio Luca Bufano ha ripubblicato, fresche di stampa, con la casa editrice Einaudi, qui.